Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Di Maio va in gita

Luciano Capone

Hanno raccontato i suoi viaggi in America come quelli di Napolitano e De Gasperi, ma Luigi ha incontrato le seconde file

La narrazione perfetta e forse più realistica sarebbe quella alla Frank Capra, l’inesperto e ingenuo cittadino comune che si ritrova catapultato nel cuore del potere, tra affaristi e politici senza scrupoli: Mister Di Maio va a Washington. E invece gli inviati al seguito del vicepresidente della Camera, anche grazie all’ottimo lavoro del Jim Messina grillino Rocco Casalino, raccontano i tour negli Stati Uniti di Luigi Di Maio come se fossero visite storiche di uno statista.

 

E’ già accaduto a maggio, quando Di Maio è andato a parlare all’Università di Harvard. In quel caso l’incontro venne presentato quasi come lo storico viaggio negli Stati Uniti di Giorgio Napolitano nel 1978, quando il “ministro degli Esteri” del Pci venne invitato dalle più prestigiose università americane per spiegare l’evoluzione del più grande partito comunista occidentale. Se n’è parlato per giorni – “Di Maio debutta in America”, “Di Maio parlerà ad Harvard”, “Di Maio punta a stringere la mano a Trump” – con il protagonista che raccontava ai militanti l’evento con toni autocelebrativi che di certo non c’erano negli asciutti resoconti di Napolitano su Rinascita: “Ad Harvard sono stato accolto con il massimo degli onori e della gentilezza – scriveva Di Maio sul blog di Grillo – Appena arrivato mi hanno invitato a firmare il Guest Book di Harvard nel Marshal’s Office, dove hanno apposto la loro firma reali e capi di stato di tutto il mondo”). Ma mentre Napolitano era stato invitato a tenere seminari e conferenze su invito delle università e dei professori di Yale, Harvard e del Mit, dove si era confrontato sulla natura del Pci con economisti e politologi come Franco Modigliani, Paul Samuelson, James Tobin, Albert Hirschmann e Robert Dahl, Luigi Di Maio è stato chiamato da un’associazione studentesca per parlare della democrazia diretta grillina. E se il viaggio di Napolitano è una tappa storica (nel suo “diario” il grillino Di Battista l’inquadra in maniera complottista negli eventi tragici dell’epoca “Napolitano si recò negli Usa, casualmente, durante i giorni tragici del sequestro Moro”), quello di Di Maio è una gita non proprio memorabile: nessun invito da parte dell’università e molte critiche degli studenti per la scarsa preparazione degli eletti del M5s. Eppure dalle cronache pareva quasi che Di Maio avesse tenuto una lectio magistralis a Harvard.

 

Il viaggio di questi giorni è stato preparato dopo il successo mediatico di quello, ma stavolta in veste di candidato premier: dopo il Di Maio accademico, il Di Maio statista. Il modello è il viaggio di Alcide De Gasperi in America nel 1947, quando il leader della Dc incontrò il presidente Truman. E in effetti la narrazione è stata di questo tenore (ancora una volta complimenti a Rocco Casalino): Di Maio che stringe legami con la Casa Bianca, rassicura il dipartimento di stato sull’ancoraggio dell’Italia al blocco occidentale, si confronta con il Congresso sulla riforma fiscale, le politiche migratorie e la crisi nucleare nordcoreana. Ma il divario tra storytelling e realtà è molto ampio. Il leader del M5s non ha incontrato figure di primo piano della politica americana e dell’Amministrazione Trump. E’ stato ricevuto da parlamentari un po’ in declino come Francis Rooney, che è stato un grande finanziatore di George Bush e poi del fratello Jeb, o di secondo piano come il repubblicano Albio Sires e il democratico Eliot Engel. L’unico politico di rilievo incontrato è l’italoamericano Steve Scalise, che comunque è il numero tre del Partito repubblicano al Congresso. Non ha parlato con il suo “alter ego” – come lo chiama lui – che potrebbe essere individuato in Kevin McCarthy.

 

L’unica figura del governo americano con cui ha parlato è un rappresentante del dipartimento di stato, ma anche in questo caso non proprio una figura al vertice della gerarchia: non il segretario di stato Rex Tillerson, non il suo vice John Sullivan, non il sottosegretario Tom Shannon e neppure il suo assistente agli Affari europei Wess Mitchell, ma uno dei sei vice assistenti di Mitchell, Conrad Tribble, che tra l’altro non è molto rappresentativo dell’amministrazione Trump visto che era stato nominato da Obama (era uno dei 382 invitati alla cena alla Casa Bianca in onore di Matteo Renzi). Tra l’altro Di Maio aveva già parlato con Tribble lo scorso 20 giugno a Roma, per organizzare questo viaggio in cui, da candidato premier del M5s, avrebbe dovuto incontrare il presidente Trump in persona. Il viaggio in America c’è stato, ma Di Maio ha stretto di nuovo la mano di Tribble.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali