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Il lato B dei boss

Riccardo Lo Verso

B come Berlusconi. Perché le chiacchiere di due mafiosi stragisti servono ai magistrati per tenere sulla graticola l’ex premier

C’è un calderone a Palermo, che ribolle senza soluzione di continuità. E’ il fascicolo “Trattativa bis”. Mentre si celebra il primo processo sul presunto patto fra i boss e i politici, mediato dai carabinieri a cavallo delle stragi di mafia, si lavora già all’ipotesi che a condurre il dialogo segreto con i mafiosi non furono soltanto gli imputati giudicati in Corte d’assise, ma anche alcuni agenti dei servizi segreti. Nel calderone c’è una lista segretissima con un numero imprecisato di indagati. Al momento ne conosciamo soltanto uno, Giuseppe Graviano. Ecco perché il capomafia di Brancaccio l’anno scorso è stato intercettato nel carcere di Ascoli Piceno. E chissà quanti altri mafiosi detenuti vengono spiati H24, al di là delle strettissime misure del carcere duro. Come dire, oggi a Graviano domani a chi?

 

Il simbolo di una stagione giudiziaria infinita, di cui le intercettazioni di Graviano sono solo una piccola parte emersa

Come un pozzo di San Patrizio che non si riempie mai, il calderone è divenuto il simbolo di una stagione giudiziaria infinita, di cui le intercettazioni di Graviano sono solo una piccola parte emersa. Era solo una questione di tempo. Si chiama “obbligatorietà dell’azione penale” o, se preferite, è l’onda lunga della giustizia. Graviano, parla in carcere per un anno con il compagno di socialità. I pubblici ministeri del processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia riversano migliaia di pagine di trascrizioni nel fascicolo del dibattimento e le trasmettono alle Procure di Firenze e Caltanissetta. La prima chiede e ottiene dal giudice per le indagini preliminari la riapertura di una vecchia indagine archiviata su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, che devono di nuovo difendersi dall’accusa di essere i mandanti delle stragi nel capoluogo toscano, a Milano e Roma nel 1993. Sarebbe un eccesso di curiosità, irrispettosa e da malpensante, volere sapere la data della riapertura del fascicolo. Giusto per spegnere il cattivo pensiero sulla possibile concomitanza tra la divulgazione della notizia e la campagna elettorale per eleggere il Parlamento siciliano. E’ lecito attendersi, a breve, anche le mosse della seconda Procura, quella di Caltanissetta, che indaga sulle stragi del ’92 a Capaci e in via D’Amelio. Senza escludere che pure a Palermo potrebbero aprire un fascicolo per concorso esterno in associazione mafiosa.

 

Quanto è strana la giustizia. Non si conosce ancora il peso che le parole di Graviano avranno al processo sulla Trattativa. Sono fortissimi i sospetti che il boss di Brancaccio recitasse in favore di telecamera. Eppure Firenze si è già attivata. Ed è la terza volta che i pm toscani scandagliano, senza esito alcuno, gli stessi argomenti. Si dirà che Giuseppe Graviano è un protagonista di quella stagione e non un pentito come Salvatore Cancemi o Gaspare Spatuzza. Passi pure, per amore di verità. Il risultato visibile anche ai non addetti ai lavori è il risveglio della stampa nazionale dopo che qualche settimana fa i taccuini sono stati malinconicamente chiusi e le telecamere spente sul più bello. Graviano, infatti, convocato dalla Corte d’assise, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Il boss, in carcere dal 1994, è stato citato alla luce di un suo precedente interrogatorio. Dopo essere stato intercettato per un anno intero mentre passeggiava con il detenuto Giuseppe Adinolfi ad Ascoli Piceno i pm palermitani lo hanno incontrato in carcere. Anche allora si avvalse “della facoltà di non rispondere a causa delle mie condizioni di salute che oggi non mi consentono di poter sostenere un interrogatorio così importante ed anche a causa del mio stato psicologico derivante dalle condizioni carcerarie che mi trovo costretto a vivere”. Poi, quella frase ad affetto che accese la speranza: “Quando sarò in condizioni sarò io stesso a cercarvi e a chiarire alcune cose che mi avete detto”. E così, il giorno della sua convocazione, il processo di Palermo si è guadagnato di nuovo le prime pagine dei giornali nazionali, dalle quali è scomparso dopo l’iniziale battage mediatico.

 

Su Berlusconi il pentito Cancemi era stato "generico e mutevole". Così scriveva il giudice che archiviò l'inchiesta

C’era il pubblico delle grandi occasioni. L’artiglieria era schierata. Si attendeva l’esplosione della Santabarbara ed invece fu solo il rumore di un petardo. Niente di niente. La suspance è durata una manciata di minuti. Quelli necessari al boss stragista per arrivare nella saletta dei video collegamenti fra il carcere di Ascoli Piceno e l’aula bunker dell’Ucciardone. Le polveri bagnate di Palermo, però, si sono riaccese a Firenze. Prima di Graviano analogo siparietto si era verificato con protagonista Totò Riina che, probabilmente per un difetto di comprensione, sembrò mostrasi disponibile a farsi interrogare, salvo poi sottrarsi alle domande con un secco “sto male”. Una vita in silenzio. Sepolti al carcere duro, il cui alleggerimento sarebbe stato merce di cambio durante gli anni della Trattativa. Almeno così sostiene l’accusa del processo di Palermo. C’è, però, chi ha trascorso gli ultimi venticinque anni in una gabbia con la certezza di essere spiato. Gli controllano tutto, anche la più insignificante delle cartoline, ma i padrini sanguinari non hanno mostrato segni di cedimento. Mai.

 

Eppure, improvvisamente, gente come Totò Riina e Giuseppe Graviano diventa loquace. Le microspie registrano ore e ore di conversazioni. Riversano nei nastri magnetici tutto ciò che hanno taciuto, arroccati in una chiusura a oltranza, figlia di una malvagità che lascia sgomenti. Se avessero qualcosa da raccontare forse lo avrebbero messo sul piatto per evitare di ammuffire in galera. Dal silenzio patologico alle chiacchiere a ruota libera. Riina e Graviano straparlano neanche fossero gli ultimi mafiosetti di borgata, ma quando arrivano in aula nessuno scatto di orgoglio per confermare di essere ancora dei boss. Dei capi veri, mica degli sprovveduti che si fanno beccare dalle microspie mentre raccontano la storia di Cosa nostra. Neppure una parola per scrollarsi di dosso l’accusa di avere parlato troppo. Di essere, seppure involontariamente, degli sbirri.

 

L'artiglieria era schierata. Si attendeva l'esplosione della Santabarbara e invece fu solo il rumore di un petardo. Niente di niente

“Mi avvalgo della facoltà di non rispondere”, ha detto, dunque, qualche settimana fa Giuseppe Graviano. Sarebbe bastato uno straccio di dichiarazione spontanea, di quelle che si prestano a mille interpretazioni, e il dibattito avrebbe avuto un sussulto. A pensarci bene c’è un precedente che avrebbe dovuto spegnere sul nascere l’entusiasmo. Nel 2009, al processo d’appello a Marcello Dell’Utri, Graviano non rispose invocando, anche allora, problemi di salute. Molto meno riservato era stato il fratello Filippo, ergastolano pure lui, che pur di difendersi dalle accuse disse che “da dieci anni ho messo la legalità al primo posto nella scala dei miei valori”.

 

Totò Riina, a 86 anni suonati, passeggiava all’ora d’aria con Alberto Lorusso. Li intercettarono tra agosto e novembre 2013 nel carcere di Milano Opera. Una truppa di investigatori della Dia incuffiati per non perdere neppure un passaggio delle rivelazioni. Alla fine ci volle un carrello per depositare le trascrizioni alla cancelleria della Corte d’assise. “L’imputato Riina accetta di sottoporsi all’esame”, disse l’avvocato Giovanni Anania nel gennaio scorso. Per molti era l’ennesima sfida del capo dei capi allo Stato e invece all’udienza successiva arrivò il silenzio. I suoi dialoghi, però, restano agli atti del fascicolo con il carico di suggestioni che si portano dietro. Riina, a sua insaputa, riempie 1.300 pagine di trascrizioni. Fa una storia di Cosa nostra, dai primi passi a Corleone all’ombra di Luciano Leggio fino alle stragi del ’92. Conferma, involontariamente e indirettamente secondo l’accusa, l’impianto del processo sulla Trattativa. “Dopo il maxi processo – dice a Lorusso, il 30 ottobre 2013 – quelli si meritavano questo e altro. E’ niente, quello che gli ho fatto e se ci fosse stato qualche altro da colpire, avrei continuato”. Si accolla le stragi e si dice pronto ad ammazzare il pubblico ministero Antonino Di Matteo, che del pool Trattativa fa parte. Vorrebbe fargli fare la fine del tonno. Scatta l’allarme e la doverosa rete di protezione per il magistrato. Tornano i titoloni in prima pagina, le catene di solidarietà dei movimenti antimafia, le accuse contro lo Stato che isola il magistrato. Riina si conferma il sanguinario di sempre. Difficile credere che sia lo stesso Riina che nel febbraio scorso diceva alla moglie Ninetta Bagaralla durante un colloquio: “Io non mi pento, a me non mi piegheranno, io non voglio chiedere niente a nessuno, mi posso fare anche tremila anni, no trent’anni”. Lui pentito per ottenere chissà quale sconto o favore? “Cosa vogliono da me. Io sono Salvatore Riina e resterò nella storia di Salvatore Riina questo è”. Frasi che gli sono costate la conferma del 41 bis decisa dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna. I giudici non hanno dubbi: Riina è lucido e vigile, “in grado di intervenire nelle logiche di Cosa nostra”. Lucido, ma talmente distratto da essergli sfuggito che un mafioso del suo calibro, detenuto al carcere duro, possa essere spiato.

 

Riina, a sua insaputa, riempie 1.300 pagine di trascrizioni. Fa una storia di Cosa nostra, dai primi passi a Corleone fino alle stragi del '92

Distratto non lo è stato di certo Graviano che già il 2 febbraio 2016, e cioè diciannove giorni dopo che gli investigatori della Dia accendono le microspie nel carcere di Ascoli Piceno mette in guardia il suo compagno di passeggiata. Bisogna fare attenzione perché gli “spioni” hanno montato le telecamere. La mente dell’uomo è imperscrutabile, figuriamoci quella di un mafioso prestata al male. Capisce subito di essere intercettato in una stanza e crede di poterla fare franca in quella accanto. E nei dodici mesi successivi, fino allo scorso aprile, consegna agli investigatori trentadue lunghe registrazioni riversate, nella quasi totalità, nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Migliaia e migliaia di pagine che forse non avranno mai la consistenza di una prova, ma la fumosità di una suggestione basta e avanza. Servono a puntellare la Trattativa, la cui esistenza viene postulata. Si ammette la validità a priori di un principio e vi si costruisce attorno una teoria che la renda credibile. Graviano e Riina hanno facoltà di parola. Non rispondono ai giudici, ma dicono la loro. Eccome se la dicono.

 

Al di là di dell’esito del processo di Palermo, che dovrebbe concludersi prima della prossima estate, ci sono già degli effetti. L’onda della giustizia da lunga si fa infinita. A Firenze per la terza volta si riavvolge il nastro della storia. Sì, perché tra il 1996 e il 1998 l’ex premier e Dell’Utri – sotto gli acronimi di Autore 1 e Autore 2 – sono stati indagati nel capoluogo toscano per concorso nelle stragi del 1993 in via dei Georgofili a Firenze, in via Fauro a Roma e in via Palestro a Milano. Tra il 1998 e il 2002, invece, Berlusconi e Dell’Utri – allora indicati come Alfa e Beta – finirono sotto accusa della Procura di Caltanissetta per il presunto ruolo nella strage in cui furono massacrati Paolo Borsellino e gli uomini della scorta. Inchieste che si sono chiuse con un nulla di fatto. L’uomo chiave era il pentito Salvatore Cancemi. Quello che gli serviva tempo per ricordare tutto. Quello che si paragonava a “una vite arrugginita che ci vuole del tempo per svitarla”. Quello che all’inizio negò di essere uno dei componenti della commissione provinciale e di avere fatto saltare in aria Falcone, Borsellino e gli uomini delle scorte. Ci mise tre anni per ammetterlo. Si giustificò invocando l’attenuante del travaglio psicologico, “che gli rendeva difficile d’un tratto uscire dalla mentalità di cosa nostra” e superare la “vergogna ad ammettere alcune cose”. Su Berlusconi era stato “generico e mutevole”, così scriveva il giudice che archiviò l’inchiesta, su richiesta della stessa Procura nissena, e le sue dichiarazioni “anguillose perché viziate dalla sua costante propensione a ridimensionare il proprio ruolo nei reati contestatigli”.

 

Nel frattempo il calderone ribolle e alimenta inchieste su inchieste. Prima di Firenze è stata la volta della Procura di Reggio Calabria dove è stata partorita la “trattativina”. Il patto Stato-mafia sarebbe proseguito anche in terra calabrese.

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