Umberto Bossi e Matteo Salvini (foto LaPresse)

Lega senza nord

Salvatore Merlo

Bossi: “E’ una cazzata pazzesca”. Salvini cancella il settentrionalismo. I timori di Maroni e il silenzio di Zaia

Roma. Qualche volta lascia che la stanchezza dei tanti anni in vetta gli scorra via come pioggia sui vetri, dunque il vecchio capo si esprime con voce debole che incespica nelle parole, un fiotto di sillabe ugualmente inestricabili tra le quali, tuttavia, l’affermazione “Salvini sta facendo una cazzata pazzesca” spicca in tono di aperta rivendicazione. E allora Umberto Bossi, poco dopo aver lasciato il consiglio federale della Lega, a Milano, in Via Bellerio, dice con tono cupo che “la nostra gente è qua, i nostri voti sono qua e sono sempre stati qua, cioè al nord”. E l’Umberto pronuncia queste parole proprio mentre Matteo Salvini, con una fiducia quasi assoluta nelle facoltà del suo istinto, invece si affaccia verso i cronisti col tono sicuro di chi scaccia le paure e concilia i tormenti: “Nel nostro simbolo elettorale non ci sarà più la parola nord”, annuncia. “La Lega ha ambizioni di governo nazionale”, spiega. “E si presenterà come Lega, in tutti i collegi d’Italia”.

 

E l’eclissi della parola nord non è questione da poco, ed evidentemente non è (solo) materia sentimentale. In questo colpo di forbici, in questa revisione sintattica, non saltano solo le origini pasoliniane della Lega bossiana, che nacque in difesa dei dialetti veneto e lombardo, né salta solo quell’Ellade longobarda chiamata Padania, e nemmeno gli effetti riguardano soltanto il rifluire preoccupato della notizia tra i militanti, che l’accolgono in queste ore secondo onde un po’ incerte e un po’ rabbiose. La decisione è politica, gravida di conseguenze, s’incastra in un gioco di potere interno al partito tra Salvini, Luca Zaia e Roberto Maroni, allude a una modifica dello statuto, alla revisione ideologica del settentrionalismo, ma soprattutto smentisce il referendum autonomista vinto la settimana scorsa dai due presidenti di Veneto e Lombardia, la chiamata alle urne che aveva visto piuttosto freddo Salvini. “Capisco che lui voglia rassicurare gli elettori in Sicilia, dove si è presentato. Ma cancellare la parola nord è un’insensatezza”, si abbandona allora a dire Gianni Fava, l’amico di Maroni, l’assessore all’Agricoltura della giunta lombarda. E s’intuisce che Salvini segue un suo progetto identitario e nazionale, ha ambizioni di leadership su tutto il centrodestra, non da oggi, ma pure coltiva il gusto di un piccolo schiaffo alle recuperate velleità di Maroni, che l’anno prossimo dovrà decidere cosa fare del suo futuro: si vota in Lombardia.

 

Dopo il referendum di domenica, in meno di una settimana, la Lega era cresciuta di un punto percentuale, arrivando al 15,6 per cento, secondo IndexResearch, e superando così Forza Italia: primo partito del centrodestra. “L’idea dell’autonomia del nord è emersa con prepotenza dal referendum. E negare che il voto di domenica fosse per il nord è un esercizio sbagliato”, dice Fava. “La Lega è tornata a crescere perché fa la Lega. E il suo consenso, oggi più che mai, è al nord. Io davvero faccio fatica a capire la razionalità di questa mossa di Salvini. Anche perché con il nuovo sistema elettorale è necessario essere forti territorialmente. E allora che senso ha togliere la parola nord dal simbolo? A meno che qualcuno non pensi di fare il pieno con il proporzionale. Ma anche questa è una sfocatura, un abbaglio. Con questa legge elettorale non si governa con il recupero proporzionale, ma con l’uninominale. E noi i collegi uninominali li vinciamo solo al nord”. Ma Salvini non è uno sciocco, è un ambizioso e un giocatore d’azzardo, vuole svuotare la destra di Giorgia Meloni, vorrebbe persino imporre al centrodestra il suo candidato nel Lazio, Sergio Pirozzi, vede i sondaggi e già s’immagina al posto che fu di Silvio Berlusconi. O la va o la spacca. “Ma fa male i calcoli… e la spacca”, mormora Bossi, sornione, recuperando la sua vecchia aria da Gian Burrasca di Gemonio.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.