La Bankitalia che non esiste più

Salvatore Merlo

Palazzo Koch è ancora un luogo centrale, ma il marasma provocato dal caso Visco sta tutto in un errore di prospettiva: l’istituto non è quello di una volta, non batte moneta, non svaluta, non fa politica industriale. Parlano Geronzi e La Malfa

Roma. “Quando Guido Carli decise di dimettersi s’era scelto come suo successore Ferdinando Ventriglia, che era stato direttore generale del Tesoro”, ricorda Giorgio La Malfa, l’ex ministro, il figlio di Ugo, rievocando la metà degli anni Settanta, quando cominciarono quei conflitti, non solo armati per le strade ma anche industriali e di potere, nei salotti, tutto quel marasma complicato che spinse l’indimenticabile Guido Carli a lasciare, dopo quindici anni, il suo ufficio al numero 91 di Via Nazionale. “Il governo Rumor allora si trovò di fronte a questa proposta, quella di Ventriglia”, racconta La Malfa. “Ebbene mio padre la bloccò, con una lettera durissima rivolta al presidente del Consiglio Mariano Rumor. Lo minacciò, in sostanza, di rompere per sempre i rapporti tra il Pri e la Dc. Non è una storia nota. E come potete ben capire dimostra che sempre in realtà la politica si è occupata della Banca d’Italia. La differenza con oggi, semmai, è che nel passato c’era metodo, misura, discrezione anche nel conflitto”.

 

E dunque ieri, come oggi, la politica, il potere sacrale della Banca d’Italia e il ruolo del suo governatore, fino al 2005 issato a vita, come un Papa laico, sul trono di un’istituzione che incuteva qualche soggezione persino al duce Benito Mussolini, che quel ruolo vitalizio voluto da Giolitti finì col rispettarlo malgrado avesse l’ambizione d’essere lui, e solo lui, la vivente fatalità dell’italico destino. I governatori della Banca d’Italia, insomma, sacerdoti della forma e custodi della sostanza, pieni dell’unzione che un giorno ricevettero assieme alle chiavi di Palazzo Koch, e che perdevano, da veri sacerdoti, solo con la morte, quando solo dal feretro emanavano il loro ultimo splendore. “Erano nominati a vita, ma si dimettevano. Erano indipendenti, ma la politica interveniva. Ovviamente. Esistevano delle procedure”, racconta Cesare Geronzi, il banchiere emerito del sistema italiano, che in poche parole descrive questo mondo antico, fatto di camere di compensazione, tensioni sotterranee e mai esplicitate, perché i conflitti esistevano ma l’imperativo era uno: dissimulare. “Il governatore uscente faceva sapere chi voleva, una figura che spesso coincideva con quella del direttore generale”, dice Geronzi. “Poi il Consiglio superiore ufficializzava questa proposta che veniva discussa in una complessa camera di regia, formale e informale, in cui entravano il ministro del Tesoro, il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica. Un sistema che si teneva insieme”. E allora s’intuiscono le ragioni della sensazione, notevole, provocata dall’affaire Ignazio Visco, con la mozione parlamentare del Pd che lo contesta, il tentativo di non riconfermarlo portato avanti da Matteo Renzi, i silenzi tesi con Paolo Gentiloni e Sergio Mattarella. “E’ un altro mondo”, dice La Malfa. “Non c’è più il sistema. E’ cambiata la politica, ma anche la natura della Banca d’Italia”, dice Geronzi.

 

Il sistema d’integrazione europea, la Bce, la moneta unica, e la scelta del governo Berlusconi di trasformare, nel 2005, l’incarico vitalizio del governatore in un incarico di sei anni, rinnovabili. “Negli ultimi dieci anni la trasformazione è stata enorme”, dice Geronzi, “la Banca d’Italia si è progressivamente trasformata, asciugata. E se vogliamo è diventata un’istituzione normale. Nessun governatore, mai più, potrebbe esprimersi come faceva scherzosamente Guido Carli, ai suoi tempi, quando diceva: ‘Passo la metà del mio tempo a spiegare ai ministri dell’Economia cosa devono fare’”. Ed era infatti la Banca d’Italia a modulare, dettare, assecondare la politica economica e industriale del paese forse persino più dei governi che andavano succedendosi con la capricciosa pendolarità tipica della Prima Repubblica. Era la Banca d’Italia a battere e svalutare la moneta, a coccolare la politica del finanziamento in deficit della spesa pubblica, a giocare con la famosa svalutazione competitiva. Ed erano i governatori della Banca d’Italia, infine, addirittura, a scrivere di proprio pugno i decreti del governo sul sistemo bancario. “Oggi invece Bankitalia è poco più di un braccio esecutivo della Banca centrale europea”, dice La Malfa. E mentre pronuncia queste parole è quasi come se l’ex ministro stesse parlando non dell’istituzione che fu presieduta da Luigi Einaudi, ma quasi dell’Asl di Crotone, insomma un posto dove non può sorprendere troppo che si pratichino forme più o meno esplicite di spoil system. “Di fatto non è più nemmeno quella riserva di uomini e di competenze che aveva prodotto i Menichella e i Ciampi”, aggiunge Geronzi.

 

E allora diventano così forse più chiari, comprensibili, i contorni storici, culturali, di sistema, della vicenda Visco: l’irritualità dell’intervento parlamentare del Partito democratico, l’attacco così esplicito, a carro armato, verrebbe da dire, della figura del governatore Visco, lui che adesso va riconfermato o sostituito in un complicato e teso intreccio che coinvolge il governo e il Quirinale, ma anche il segretario del Pd. Nulla di tutto questo sarebbe potuto accadere nell’Italia di appena vent’anni fa, spiegano gli uomini che questi meccanismi di sistema, tra politica e potere finanziario, li hanno praticati per tutta la vita, e per due ordini di motivi: la Banca d’Italia era stata disegnata come un organismo capace di autoperpetuarsi e autoriprodursi nella sua catena di comando, e la politica – che pure interveniva – stava all’interno di un sistema che rispettava dei codici, dei riti e una grammatica prescritta dall’antico messale primo-repubblicano. “Ma se cambia radicalmente la natura della Banca d’Italia, e contemporaneamente anche la politica cambia stile e linguaggio”, dice Geronzi, “non può sorprendere nessuno che l’istituzione venga trattata per quello che è, cioè una cosa molto meno importante di quello che era un tempo. E che tutto questo avvenga con metodi, persino spicci, che sono quelli di oggi. A me tutto questo non piace. Però è così. E non mi stupisce”. E insomma, dice La Malfa, “la vicenda Visco è il segno dei tempi. E’ il sigillo su un passaggio d’epoca definitivo che non si è consumato oggi, tutto d’un colpo, ma progressivamente, e che però forse solo oggi appare chiarissimo nei contorni di questa vicenda”, che riporta tutto, anche la Banca d’Italia, che pure ha avuto la sua fierissima grandeur, a una dimensione più modica, periferica. Un oggetto attorno al quale si può anche fare dell’inestetica baruffa. E senza che caschi il mondo.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.