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I veri vuoti di Bankitalia

Claudio Cerasa

Gli scontri tra istituzioni non sono eversivi. Ma se la discontinuità è solo evocata, meglio un cacciavite

Doveva essere un referendum su Visco, rischia di diventare un altro referendum su Renzi. Ma che sta succedendo nel triangolo tra Palazzo Chigi, Quirinale e segreteria del Pd? Vediamo un attimo. Definire “eversione”, come ha fatto Ferruccio de Bortoli su Twitter, la scelta del Partito democratico di portare in Parlamento la discussione sul rinnovo di Bankitalia è una forzatura giornalistica non molto diversa dalla scelta di evocare il “ritorno al fascismo” per spiegare il senso dell’uso della fiducia nell’approvazione di una legge elettorale.

 

 

La questione, in realtà, è molto più semplice, e insieme molto più complicata. Nello scontro che si è manifestato martedì pomeriggio tra il Pd (lato renziano) e la coppia Quirinale-Palazzo Chigi non ci sono in ballo i valori della democrazia (non siamo mica su Rousseau) ma ci sono semmai in ballo alcuni errori di grammatica istituzionale commessi dal Partito democratico.

 

La storia è nota.

 

Il Pd (senza nominarlo) ha sfiduciato in Aula l’attuale governatore della Banca d’Italia (Ignazio Visco) e ha tentato di sfruttare il rinvio della nomina del governatore (che era prevista per questa settimana) per provare a dare un segnale di discontinuità a Palazzo Koch. Dal punto di vista istituzionale la forzatura tecnica esiste (politicamente non è il Parlamento che si occupa della nomina ma sono il presidente del Consiglio e il Consiglio dei ministri) ma nella storia della battaglia su Bankitalia l’anomalia vera, e forse più grave, ci sembra essere un’altra. Non la scelta (legittima) di utilizzare l’arma atomica del voto del Parlamento (un pasticcio lo ha combinato anche il presidente della Camera Laura Boldrini che probabilmente non avrebbe dovuto accettare la mozione di indirizzo del Movimento cinque stelle, che chiedeva di cacciare Visco, alla quale il Pd ha scelto di replicare, senza citare Visco, per evitare di non avere una posizione su Bankitalia) ma è stata semmai la decisione di non spiegare fino in fondo il perché dell’utilizzo dell’arma atomica.

 

Se un Parlamento arriva a chiedere un cambio di passo a un organo tecnicamente indipendente dalla politica come Bankitalia decidendo di utilizzare strumenti diversi da quelli del cacciavite – non è la prima volta che in questa legislatura la Camera interviene con mozioni di indirizzo su nomine in cui il Parlamento non c’entra nulla, è successo anche con il caso Consip, ma un conto è una società le cui nomine sono legate al governo un’altra è un’istituzione indipendente il cui statuto è protetto anche a livello europeo – quel cambio di passo non può essere evocato genericamente ma deve essere spiegato nel dettaglio: entrando nel merito della discontinuità, aprendo un confronto sul futuro della Banca d’Italia (dire che negli ultimi anni è “mancata una vigilanza efficace” non è sufficiente), discutendo persino delle modalità con cui è stato introdotto il sistema del bail-in e uscendo fuori dallo schema della personalizzazione e della dialettica del Visco sì o Visco no.

 

La discussione su Bankitalia è fuori dalle righe non perché il Parlamento si è espresso su un tema che non è di stretta competenza delle Camere (del resto anche in Germania si discute eccome in Parlamento sul ruolo della Bundesbank e sul suo presidente) ma perché il partito che ha accettato di discutere in Parlamento una mozione di indirizzo – anche a costo di segnare una distanza dal governo di cui il Pd è azionista (prove di campagna elettorale) – avrebbe dovuto mettere a fuoco più l’oggetto che il soggetto della contesa.

 

In mancanza di questa messa a fuoco il risultato è stato invece un pasticcio. Se l’obiettivo era sostituire il governatore di Bankitalia, sarebbe stato più semplice farlo giocando per una volta con il cacciavite. Se l’obiettivo era aprire una discussione sul ruolo di Bankitalia, sarebbe stato preferibile farlo spiegando nel dettaglio che cosa vuol dire sognare una “figura più idonea a garantire nuova fiducia nell’istituto”. Entrambi gli obiettivi rischiano di non essere raggiunti e se così sarà la mozione per la discontinuità su Visco potrebbe avere un effetto indesiderato per coloro che l’hanno proposta: misurare prima ancora del voto della Sicilia che consistenza può avere nel Pd il partito della discontinuità con Renzi (c’è anche Veltroni?). Ne riparleremo sabato a Firenze con il segretario del Pd.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.