Savonarola e Virginia Raggi (combo Il Foglio)

Tra Savonarola e Raggi, la fine di Di Maio è già scritta

Roberto Arditti

Il candidato premier del M5s o farà la fine del frate domenicano, o seguirà il destino malinconico della sindaca di Roma. Sono le uniche alternative possibili per il grillismo applicato alla difficile arte del governare

Nell’agosto del 1496 Papa Alessandro VI propone al celebre grillino del tempo Girolamo Savonarola la porpora cardinalizia, ricevendo dall’esuberante frate domenicano un netto rifiuto. Due anni dopo, per brutale iniziativa dei Palleschi (i sostenitori dei Medici, nel cui stemma campeggiano sei bisanti o “palle”, cinque rosse e una con il giglio di Francia) Savonarola viene arrestato, rinchiuso nella torre di Palazzo Vecchio, torturato per giorni ed infine messo a morte al centro della piazza. Così si conclude la vicenda umana e politica di uno dei più controversi protagonisti del Rinascimento, fiero oppositore del Papa di Roma e dei Medici dominatori di Firenze, famoso per le sue prediche contro la corruzione della Chiesa - “niente di buono è nella Chiesa... dalla pianta del piede fino alla sommità non è sanità in quella" - e dello Stato. Insomma un grillino ante litteram il Savonarola, uno che da un lato teorizza e mette in pratica la sovrapposizione assoluta tra predicazione e impegno politico (fino a diventare uno dei protagonisti della pur breve cacciata dei Medici dalla città nel 1494, l’anno della campagna d’Italia del re di Francia Carlo VIII) ma dall’altro difende ad ogni costo la sua estraneità al potere costituito, rifiutando il compromesso che gli propone il Papa: la nomina a cardinale in cambio dell’obbedienza e della fine delle prediche contro tutto e tutti.

 

Cosa ci insegna la storia del Savonarola e come possiamo rileggerla con gli occhi del nostro tempo politico?

È presto detto: ci spiega a chiare lettere perché la parabola del candidato premier del M5S è destinata a fare una brutta fine.

Il giovane Di Maio infatti ha davanti a sé un bivio tutt’altro che confortevole, poiché dispone di due sole, concrete alternative: fare la fine del Savonarola (seppur nella versione pacifica e democratica del XXIesimo secolo) o seguire il destino malinconico della sindaca di Roma, Virginia Raggi.

Savonarola o Raggi, solo a questo può portare il furibondo approccio grillino nel momento in cui incontra la difficile arte del governare, con annessi onori ed oneri e la inebriante essenza del potere.

 

Già il potere, croce e delizia degli ambiziosi, dei capipopolo e dei sognatori di ogni tempo.

Quel potere che noi oggi, con approssimazione non felicissima in verità, facciamo coincidere con la vittoria alle elezioni, come se quello fosse davvero l’atto più rilevante.

Quel potere che Di Maio mostra di sentire già suo, innanzitutto per ragioni iconografiche. È infatti una foto da “aspirante” potente quella che lo vede incedere spavaldo verso il portone del Quirinale mano nella mano con la fidanzata dalle tante curve e dai troppi tacchi: tutto invero eccessivo per immaginare una storia lunga e solida di potere, tutto perfetto per concepirne una breve e incerta.

Il potere, caro di Di Maio, è scarpe basse e spalle coperte, se si vuole durare.

 

Per una storia invece di corto respiro sono perfette tutte le ultime mosse del nostro eroe: così la sua scampagnata a Cernobbio assume aspetti di tenerezza fanciullesca, così il suo successo da 37.000 miseri votanti alle primarie diventa in un attimo una beffa, una vittoria di Pirro in salsa pentastellata.

Se Di Maio cercherà di coniugare l’esercizio del potere con la purezza grillina farà la fine del Savonarola, poiché l’operazione è in aperto contrasto con le leggi fisiche dell’universo politico: non si può predicare contro tutto e tutti e poi governare in modo duraturo ed efficace. La purezza del messaggio di protesta non sa tradursi nell’arte schifosa e nobilissima del guidare la cosa pubblica, mestiere per donne e uomini di mondo, capaci di cercare la mediazione quando serve, volti all’ascolto e alla pazienza.

 

Se invece il candidato a cinque stelle alla carica di primo ministro sceglierà la via del Palazzo, cioè della mitica “stanza dei bottoni”, è già pronto per lui il destino della tapina che governa la capitale, esempio vivente di immobilismo amministrativo, sconfortante assenza di prospettiva politica, povertà dialettica e lessicale. La Raggi è la prova vivente che blaterare contro il sindaco da consigliere d’opposizione è facile, metter mano alle delibere è maledettamente difficile, ma diventa inutile o impossibile se a provarci è persona inadeguata al punto da far apparire i suoi predecessori (anche gli ultimi due, cioè Marino e Alemanno) dei giganti.

Non c’è terza via per il giovane Di Maio, la sua strada è comunque destinata a condurlo nel vicolo cieco della sconfitta, che naturalmente sarà attuata per mano dei suoi compagni di partito, come dimostrano senza possibilità di equivoco gli atteggiamenti di questi giorni di Fico e Di Battista, i più dotati nel mazzo dell’armata brancaleone a cinque stelle.

Il potere è una brutta bestia, caro Di Maio.

 

L’approccio grillino prevede per statuto di strillare incessantemente alla luna, partecipando alle elezioni ma sperando fino all’ultimo di perderle.

Lo sa bene il Supremo Sacerdote di questa sgangherata avventura politica che è Beppe Grillo.

Lui non accetta compromessi, gioca sempre in proprio perché se lo può permettere: lui era Grillo anche quando il Movimento non c’era e nemmeno era stato inventato.

Lui e solo lui può fare il giullare, poggiando sul suo talento d’artista la forza della denuncia.

Un giullare spietato ma trasparente nella sua avversità al potere, per questo amato dal suo popolo.

 

Quando però il potere comincia a farsi vicino, ammaliante e minaccioso ad un tempo, il Grande Saltimbanco Dissacratore con mossa del cavallo si fa da parte e lascia spazio ai giovanotti tristi, quelli che cantano vittoria dopo una consultazione in rete che definire modesta è atto di clemenza.

Grillo è lontano anni luce dal povero Gigi Di Maio.

Mentre quest’ultimo si avvia a scegliere tra il destino del Savonarola e quello della Raggi, il Beppe nazionale fa un gesto sublime e devastante allo stesso tempo: si compra un teatro.

Perché lui è altrove, sempre e comunque.

Gli altri, Giggino per primo, sono comparse. Lui è impresario, regista e attore protagonista.

E l’ultimo chiuda la porta.