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Dai vaccini alla Catalogna. Perché le democrazie sono vittime del proprio successo

Claudio Cerasa

Sottostimare i rischi di una scelta irrazionale, sottovalutare i benefici di cui godiamo nella società contemporanea: è il cattivo ottimismo teorizzato dal Nobel Thaler. Quello da cui occorre vaccinarsi

In una qualsiasi fase storica diversa rispetto a quella che viviamo oggi, l’assegnazione del premio Nobel per l’economia a Richard Thaler, per il suo contributo negli studi sull’economia comportamentale, avrebbe avuto un significato strettamente economico e avrebbe avuto un’implicazione politica collegata solo alla semplice e fredda valutazione del buon funzionamento o meno della famosa teoria del nudge, ovverosia la necessità o meno che uno stato metta in campo delle spinte gentili per rendere meno irrazionali le scelte dei cittadini.

 

Ma in una fase storica come quella in cui viviamo oggi, l’assegnazione del Nobel a Richard Thaler, se osservata con lo spirito giusto, potrebbe diventare l’occasione per riflettere non solo sulle radici del paternalismo libertario ma anche sulle radici di un male dei nostri tempi, sintetizzabile con una formula che suona più o meno così: “Unrealistic optimism”. L’ottimismo non realistico, o se volete il cattivo ottimismo, è un’espressione che Thaler usa da anni per provare a mettere a fuoco un fenomeno importante, e tuttora in buona parte misterioso, che riguarda la società contemporanea: la ragione per cui in alcuni contesti gli elettori compiono scelte apparentemente irrazionali. Thaler non si riferisce alla scelta di un politico al posto di un altro o di un partito al posto di un altro, ma si riferisce alla tendenza sempre più marcata nelle democrazie contemporanee di sottovalutare alcuni benefici di cui godono i cittadini e di cui a poco a poco sembrano non accorgersi più. In uno dei suoi volumi più famosi, “Nudge: Improving Decisions About Health, Wealth, and Happiness”, Thaler ha messo a fuoco l’ottimismo irrealistico esaminandolo da due lati diversi. 

  

Il primo lato ha una sfaccettatura positiva e si riferisce al fatto che è grazie ad alcuni processi irrazionali che paradossalmente l’uomo a volte compie atti razionali: “Le persone – è il ragionamento di Thaler – sono irrealisticamente ottimiste quando si sposano. Se dovessero valutare con freddezza le possibilità di insuccesso del loro matrimonio, che una volta su due si conclude con un divorzio, nessuno si sposerebbe più ma per fortuna l’ottimismo irrealistico ci permette di sottostimare questa percentuale, ciascuno di noi crede che la percentuale di divorzi sia infinitamente più bassa di quello che è, ed è anche per questo che i matrimoni esistono ancora”.

  

La seconda sfaccettatura utilizzata da Thaler per mettere a fuoco l’ottimismo irrealistico è invece negativa e riguarda un tema che non può che appassionare chi si chiede ogni giorno come sia possibile che nelle società contemporanee ci siano sempre più persone che seguono un percorso o una direzione apparentemente irrazionale. Il rifiuto dei vaccini. La diffidenza per la globalizzazione. La nostalgia per il socialismo. L’incapacità di comprendere fino in fondo i benefici di una democrazia. Scrive Thaler: “L’ottimismo irrealistico è una caratteristica pervasiva della vita umana e caratterizza la maggior parte delle persone nella maggior parte delle categorie sociali. Quando esse sovrastimano la propria immunità personale dal male, potrebbero non riuscire a muoversi nella giusta direzione per continuare a prevenire quel male”.

 

Thaler prende spunto da questa premessa per giustificare il dovere di uno stato di dare ogni tanto un pizzico ai suoi cittadini, ricordando, attraverso lo strumento del nudge, i pericoli che si corrono nel sottostimare i rischi di una scelta irrazionale – “If people are reminded of a bad event, they may not continue to be so optimistic” – ma più che concentrarsi sulle conclusioni del ragionamento di Thaler vale la pena concentrarsi sulla premessa che ci sembra utile da inquadrare per provare a spiegare alcuni processi quotidiani che apparentemente possono sembrare inspiegabili e che invece forse non lo sono affatto.

 

L’ottimismo irrealistico, se messo a fuoco con intelligenza, potrebbe spiegare perché i movimenti anti vaccini è più facile trovarli in società sane (che non conoscono più l’orrore di alcune malattie proprio grazie ai successi dei vaccini) che in società meno sane. L’ottimismo irrealistico, se messo a fuoco senza pigrizia, potrebbe spiegare perché i movimenti che mettono in discussione i principi della democrazia (avete capito di chi stiamo parlando) possono svilupparsi solo in quei contesti in cui coloro che dovrebbero essere le sentinelle della democrazia sovrastimano la propria immunità personale dal male e non combattono come dovrebbero per ricordare (non serve necessariamente il nudge) cosa significa rinunciare ad alcuni principi del nostro sistema democratico (e del nostro stato di diritto).

 

L’ottimismo irrealistico, se osservato con cura, potrebbe anche spiegare perché, in alcuni contesti ricchi e rigogliosi come per esempio la Catalogna, il benessere eccessivo possa portare a far dimenticare quali sono le ragioni che hanno permesso la proliferazione di quel benessere arrivando perfino al punto di spingere molte persone a votare contro il sistema che ha creato le condizioni per la proliferazione di quel benessere. In un bellissimo libro pubblicato qualche mese fa per Einaudi, “Democrazie senza memoria”, Luciano Violante, facendo sue alcune tesi contenute in un altro bel libro del professor Sabino Cassese (“La democrazia e i suoi limiti”), dedica un passaggio di un capitolo proprio a questo tema: perché le democrazie sono vittime del proprio successo. “I fattori che portarono al primato della democrazia – scrive Violante – si sono rovesciati nel loro contrario. La caduta del Muro di Berlino ha avviato il crollo del nemico sovietico; conseguentemente la democrazia occidentale si è rivestita dei propri allori e ha considerato se stessa come un’ineluttabile certezza.

 

Il capitalismo aveva segnato la più importante delle sue vittorie e l’intreccio fra capitalismo e democrazia appariva l’unico futuro auspicabile per l’umanità. Tuttavia – continua Violante – si poneva in termini nuovi il rapporto fra regole e mercato perché, scomparsa la necessità di competere con il sistema sovietico, che funzionava come condizionamento esterno, regole e mercato hanno avviato un durissimo braccio di ferro. In nessun paese democratico possono darsi un mercato senza regole e regole senza un mercato. E solo uno Stato effettivamente democratico può garantire un’armonia tra crescita capitalistica ed equità sociale: il capitalismo senza regole svuota la democrazia.

 

Regole senza mercato producono abusi sulla vita dei cittadini. Le generazioni successive alla Guerra fredda sino ai millennials – continua Violante – sono cresciute in tempi pienamente democratici, certe dell’insostituibilità della democrazia, ignorando le fatiche della sua costruzione e della sua manutenzione: perciò appaiono più propense a denunciarne i difetti che a riconoscerne le virtù. I giovani non possono conservare la memoria delle fatiche e dei rischi per la costruzione delle democrazie, perché non li hanno vissuti e nessuno li ha raccontati in modo credibile. Ne vedono perciò soprattutto i limiti: considerano la democrazia e i diritti che le sono connessi come un puro dato di fatto. Trascurano la necessità dei doveri per dare prospettive di sviluppo alla propria vita e a quella della comunità nazionale.

 

È quindi venuta meno l’idea che i cittadini abbiano una propria specifica responsabilità nella costruzione e nel consolidamento della democrazia”. La conclusione del ragionamento ci porta ad arrivare al cuore di un problema che in una società vaccinata dalla demagogia, diciamo così, dovrebbe essere al centro di ogni campagna elettorale: la necessità per una democrazia funzionante di avere una buona élite che sappia guidare un paese e che sappia dimostrare che in ogni contesto politico, mai come oggi, la presenza di esperti è una necessità e non un problema della nostra società. Ne parleremo sabato e domenica prossima a Firenze, alla festa dell’ottimismo del Foglio. Dove proveremo a spiegare perché accanto a un ottimismo buono ce n’è anche uno cattivo che a poco a poco si sta mangiando alcuni pezzi della nostra democrazia.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.