Cronaca della mutazione del dalegrillismo a una riunione Cgil

Nunzia Penelope

D'Alema rinnega il suo passato, ripudia la "terza via" e propone un programma massimalista che perfino Landini frena

Roma. Nella geografia della politica, Canossa è in Piazza Vittorio, luogo romano di confine, mezza Chinatown e mezza Belleville. E’ qui, in una sede decentrata della Cgil, portone anonimo sotto i portici, che Massimo D’Alema cerca di riconquistare la confederazione rossa, dopo lo scontro di vent’anni fa. Era l’epoca di Sergio Cofferati, e il D’Alema di allora, da premier, lo accusava di non capire la globalizzazione, di respingere ottusamente la flessibilità del lavoro: parola “malata’’, nella definizione dell’ex sindacalista, nuova frontiera della piena occupazione nella visione dell’ex premier. Oggi tutto è cambiato. D’Alema si è spostato a sinistra, e l’interlocutore prescelto per riavvicinarsi alla Cgil è Maurizio Landini, il più barricadiero dei sindacalisti, che alcuni vedono come prossimo leader della confederazione, in ogni caso punto di riferimento d’indiscussa leadership.

 

D’Alema e Landini non si conoscono, mai hanno dialogato, in pubblico o in privato. L’incontro “La sinistra e il lavoro” tenutosi mercoledì sera è stato organizzato da Giorgio Airaudo, già alla Fiom con Landini, oggi parlamentare di Sinistra italiana. La sala che ospita il confronto è piccola, 100 posti, al civico 113 della piazza dedicata al primo re d’Italia. Platea attenta e fredda, composta quasi esclusivamente da dirigenti sindacali. Applausi zero. Palco e platea si studiano. Il “lider Maximo” ce la mette tutta, per conquistarli. Inizia facendo ammenda del passato: “La sinistra ha subìto il fascino della globalizzazione, ma abbiamo sottovalutato che queste trasformazioni non governate avrebbero portato alla crescita delle disuguaglianze”, scandisce l’uomo del blairismo. Sottovalutato anche il ruolo dello stato in economia: “Con le privatizzazioni abbiamo probabilmente fatto degli errori”, ammette l’uomo della merchant bank che non parlava inglese, quello dei Capitani coraggiosi. C’è per tutti una via di Damasco, e quella di D’Alema è il 2007, la grande crisi del capitalismo, della finanza: “Da quel momento in poi ho sentito l’esigenza di una riflessione profonda”. Che si esplicita più o meno così: “Oggi siamo chiamati al dovere di ricostruire una sinistra politica che si ricolleghi al mondo del lavoro”. Riassume: “Il lavoro è svalorizzato, l’abolizione dell’art. 18 lo ha indebolito, regna il precariato, il supersfruttamento”. E ancora: “La filosofia del Jobs Act è sbagliata, afferma che se si tolgono le rigidità al lavoro si elimina il precariato, ma non è vero”, insiste l’uomo che propose una moratoria di tre anni sull’art. 18, per facilitare le assunzioni. Ma tutto cambia, e dunque: “Noi di Mpd andremo alle elezioni dicendo che bisogna ripristinare una tutela contro i licenziamenti”.

 

E’ solo il primo punto di un vasto programma, molto di sinistra, che D’Alema propone a Landini e, per estensione, alla Cgil: legge sulla rappresentanza, salario minimo, riforme fiscali per “far pagare più tasse ai ricchi e abbassarle sul lavoro’’, rilancio dei grandi investimenti pubblici, stop alle “regalie alle imprese”, lotta al precariato e al lavoro nero, e, dulcis in fundo, perfino la riduzione dell’orario di lavoro. (Fausto Bertinotti, che nel 1998 vide le sue 35 ore affossate nel passaggio da Prodi a D’Alema, chissà quanto godrebbe oggi ad ascoltarlo). Al sindacato, D’Alema spiega che un tempo la sua grande forza era tenere insieme “l’aristocrazia operaia e l’operaio massa”, ma oggi “rappresenta solo il mondo di mezzo’’. Occorre quindi “riunificare il mondo del lavoro”, ma le vertenze non bastano, ci vuole “un progetto politico’’, mentre il sindacato, a sua volta, deve fare la sua parte “nella ricostruzione di una sinistra di governo”.

 

In estrema sintesi: “Torniamo a ragionare del rapporto tra partito e sindacato’’. Ma è proprio qui che Landini lo stoppa. D’Alema ha in mente il primato della politica, e il sindacato, come l’intendenza, seguirà; l’uomo della Cgil ha in mente invece “l’autonomia e l’indipendenza del sindacato, oggi più necessarie che mai’’.

 

Landini rovescia i termini della questione: “Occorre ricostruire una cultura del lavoro, e poi la sua rappresentanza politica”. Ricorda che la campagna della Cgil contro il referendum costituzionale “ha contribuito a riportare alle urne alcuni milioni di italiani che non votavano più”; rivendica che la sua organizzazione ha portato in Parlamento una legge di iniziativa popolare che riscrive daccapo la legislazione del lavoro e dei diritti; quindi, di quale rappresentanza politica stiamo mai parlando? Poi, la stoccata finale: “Le persone mi fermano per strada, mi chiedono ‘Landini, ma per chi dobbiamo votare?’. E io rispondo: non lo so nemmeno io, per chi votare’’.