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Anche sui sindacati il M5s ha le idee molto confuse

Giuliano Cazzola

Le dichiarazioni di Di Maio da Floris e la contemporanea apertura all’estrema sinistra sindacale e all’ala moderata. I problemi a Roma

Intervistato a “Di martedì’’ da uno stuolo di giornalisti, Luigi Di Maio è riuscito a schivare le domande (apparentemente insidiose) con l’abilità di un doroteo d’antan. Solo in un caso ha risposto con “voce dura’’, confermando le precedenti affermazioni di Torino: quando lo hanno accusato di nostalgia del Ventennio per come vorrebbe trattare i sindacati (di cui tutti i presenti si sono rivelati strenui difensori). In realtà sarebbe bastato leggere con più attenzione il programma del Movimento 5 stelle e valutare come si comportano a Roma gli amministratori grillini per rendersi conto che le idee in proposito sono parecchio confuse.

 

Cominciamo dal programma. Uno dei consulenti – Giorgio Cremaschi, già alla testa, prima della pensione, della componente più radicale della Cgil – li ha convinti (all’insegna del “uno vale uno’’) a sbarazzarsi delle norme in tema di rappresentanza sindacale che in Italia (come in tutti i paesi industrializzati) prevedono dei criteri di maggiore rappresentatività (articolo 19 dello Statuto come modificato dal referendum del 1995) per accedere ai diritti sindacali e all’esercizio della contrattazione collettiva. In pratica, si aprirebbe un’autostrada per il cosiddetto sindacalismo di base che si caratterizza – ne abbiamo esempi quotidiani non solo nel pubblico impiego e nei servizi – per l’irresponsabilità verso le imprese e i cittadini. Quando si cuciono i programmi come se fossero il vestito di Arlecchino, si incorre in spiacevoli incoerenze. Il M5s accarezza, in un’altra parte del programma, l’idea della “cogestione alla tedesca” (che il sindacalismo di base rifiuta) con la partecipazione dei lavoratori ai consigli di amministrazione, di gestione o comunque di sorveglianza dell’impresa, incluse forme di partecipazione agli utili. In sostanza anche nel caso dei sindacati il M5s la regola sarebbe la stessa prevista per i partiti: la disintermediazione dei soggetti collettivi nel rapporto tra datori e lavoratori, i quali sarebbero coinvolti direttamente nella vita delle aziende (tramite la piattaforma Rousseau?). In sostanza, con un ampio volo pindarico, il M5s apre nello stesso tempo all’estrema sinistra sindacale (sul terreno della rappresentanza) e all’ala moderata (su quello della partecipazione) e tenta di colpire al cuore le confederazioni storiche nei confronti delle quali minaccia: “Il M5s vuole tagliare gli anacronistici privilegi che, all’interno del sistema sindacale, hanno contribuito a creare situazioni da ‘casta’, completamente scollata dalla realtà del lavoro che cambia’’.

 

E a Roma? Nella Capitale è arrivata la smentita. La sindaca Raggi (pretendendo che le venisse dato del lei?) ha sottoscritto, nel giugno scorso – proprio con Cgil, Cisl e Uil – un Protocollo, vibrante e altisonante, che istituisce un quadro di relazioni privilegiate. E’ seguita, poi, la stipula di un Contratto decentrato integrativo, composto da 40 articoli distribuiti su 35 pagine cosparse di firme. I dirigenti sindacali non hanno guardato in faccia a nessuno anche a costo di approfittare dell’inesperienza della sindaca per ottenere che tutto cambi ma resti uguale a prima. Certo, la giunta Raggi è legittimata a sostenere di essersi mossa nell’ambito di un contesto consolidato e di aver cercato di introdurre dei criteri di valutazione oggettivi (fino a perdersi nei meandri dei parametri individuati anche per premiare persino chi dice educatamente “buongiorno’’ ai colleghi entrando in ufficio). In sostanza, il quadro normativo della gestione del personale rimane più o meno quello di sempre. Basti osservare il numero e la qualità delle indennità accessorie previste: turnazioni, reperibilità (anche a Capodanno?), rischio, maneggio valori, disagi operativi. Oppure il sistema di valutazione della produttività corredato di una scala di punteggi riferiti a declaratorie tanto ampie e generiche da essere oggetto di interpretazione difforme e quindi di contestazione.

 

Ma uno degli aspetti più discutibili sembra essere quello della progressione di carriera: un meccanismo che non si basa sui posti disponibili in organico, ma sulla (supposta) crescita professionale del dipendente, in quanto gli è riconosciuto il diritto di attivare la procedura e far valere i titoli. Vorremmo sbagliare, ma questi percorsi possono determinare un periodico scorrimento di buona parte del personale verso posizioni lavorative più elevate senza che muti sostanzialmente l’organizzazione del lavoro. In questo modo la qualifica verrebbe ad assumere un valore soggettivo; non sarebbe più ragguagliata alle mansioni a cui il lavoratore è adibito ma alle sue capacità professionali dichiarate e documentate sulla base dei requisiti previsti. I criteri di scelta e di promozione saranno pure oggettivi, ma finiscono per contrabbandare la solita prassi del todos caballeros.

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