Emmanuel Macron (foto LaPresse)

Pessimismo è fastidio

Giuliano Ferrara

Panebianco fa il pessimista sul Corriere. Ha ragione, ma c’è molto per cui essere ottimisti

C’è poco da dire, Angelo Panebianco, che scrive da anni libri eccellenti e articoli ancora migliori nel Corriere della Sera, è un nostro beniamino. Le sue idee sono spesso, quasi sempre, le nostre idee, la sua resistenza alla stupidità, anche violenta, dei suoi avversari, è la nostra resistenza. E’ un liberale e un democratico di tipo speciale, contrario a ogni cedimento alla correttezza politica, ma educato a una scuola che non è quella dell’ottusità, della cupezza, della scorrettezza degenerata in cattive maniere, in ribalderia pura, senza le cautele dell’intelligenza. Anzi, maestro di quella buona scuola che sa e sa insegnare. Maestro non narcisista, privo di sicumera, argomentatore e disputatore pacato ma mai noioso, sempre diritto verso una rem, che lui tiene, e verba sequentur. Diremmo che il primato civile del Corriere in Italia, se ci sia nessun lo sa, deve comunque a Panebianco moltissimo, e la politica dovrebbe coprirlo di incenso e mirra, perché oltre che liberale, oltre che democratico, oltre che competente, Panebianco è un realista, di quello speciale realismo che deriva da una comprensione approfondita e sagace del valore dei principi, dei criteri, dei modi di espressione di quanto è permanente, che non devono mai impedire la mobilità, l’aderenza alle cose che mutano.

 

Però adesso Panebianco è triste, troppo, secondo noi. Non lo dico perché noi foglianti facciamo feste dell’ottimismo, sapendo per primi quanto sia facile essere smentiti in materia, non perché ci spinga verso la composizione con il reale un po’ moscio del momento la rassegnazione opportunista. Panebianco ha ragione, è evidente. La Francia con le sue istituzioni ultramaggioritarie e presidenzialiste è l’ultima speranza o la penultima, diciamo così, in un’Europa délabré e populisteggiante, secessionista, per niente scapigliata, introversa e rinazionalizzante. E l’Italia sta andando, quale che sia la legge elettorale infine approvata o silurata dalle Camere di questi tempi, verso la deriva opposta, con il rischio del riprodursi di difetti di sistema che ci accompagnano dalla formazione stessa dello stato unitario, con i suoi connubi di potere, le sue adunate al centro, il suo trasformismo, i suoi governi che cambiano uno l’anno, senza alternanza vera, così nella seconda metà dell’Ottocento monarchico, così (identiche statistiche di immobilità e rinvio di ogni riforma) nella seconda metà del Novecento cattolico-democristiano.

 

Ma non si deve prenderla con tristezza, è sbagliato. Non è che non ci si sia provato. Craxi ha provato a popolarizzare la grande riforma presidenzialista, è finito impiccato a responsabilità di sistema non solo sue, e con un capovolgimento di fronte sostenuto dal circo mediatico-giudiziario, si è imposto un nuovo paradigma benpensante e moraleggiante della forza. Poi Berlusconi, sempre a suo modo, anche lui con un numero infinito di errori, ci ha riprovato, e ne è venuto fuori ahimé un film di Sorrentino, a parte i grandi mutamenti che non saranno compresi né esposti dagli sceneggiatori del premio Oscar in cerca di bellurie. Cossiga aveva anche lui fatto qualcosa di molto rumoroso, confuso e nel fondo intelligente, ma era parte di un vecchio e gioioso mondo scomparso lui già in vita.

 

D’Alema è un noto vellitario, ha provicchiato ma sempre guardando al proprio ombelico. Monti si è messo dietro la lavagna da solo, dopo aver fatto da cattedratico della democrazia depoliticizzata, anche con risultati rimarchevoli, ed è finito purtroppo capocorrente di una masnada di arrapati. Renzi ha brillato, è giovane, sbruffone, solitario nell’esercizio del potere, capace, e ne ha fatte, ma è saltato su una mina che si è messo da solo, e questo è sconsolante.

 

In verità il campo minato è proprio quello che Panebianco vorrebbe essere un campo vergine, sul quale finalmente si stava riprovando a scrivere, in condizioni nuove, premacroniane, una storia italiana un po’ diversa dal solito. Fatto sta che i partiti storici gli italiani li hanno lasciati morire, con le sfilate e le torce sotto la procura di Milano; una timida e forse ignava borghesia ha imbracciato l’arma della casta per non essere spazzata via, facendo le coccole ai somari del comico e della Casaleggio dopo tanto civettare con la giustizia sommaria; forze vive e vivaci a protezione e scudo del maggioritario non sono mai arrivate, questo è il fatto, e alla fine il rimodellamento del sistema è finito tramortito da un referendum fatale che ci ha privato del monocameralismo e del ballottaggio, mica poco. Il faut faire avec, caro Angelo, bisogna riconoscere che le cose si sono mosse in una direzione opposta alla riforma delle riforme, la riforma del modo di esercizio del potere e del sistema politico. Bisogna ripartire da quel che c’è, con pazienza, e anche con un sentimento non cocciuto, non avvilito, ma in qualche senso speranzoso.

 

Lo stesso vale per l’Europa, a guardar bene, e non è solo una coincidenza. Con l’arrivo degli inglesi sembrava che il mercato unico liberoscambista avrebbe fatto la parte del leone, e che in un’epoca di neoliberalismo e di sviluppo tecnologico spinto nazioni stati e popoli avrebbero accettato di dimensionarsi su una società aperta il cui telaio è la mobilità sociale del mercato, con mille guarentigie e protezioni che sappiamo. Se ne sono andati, gli inglesi, e non ci resta che il ritorno all’incontro franco-tedesco fra stati, fra culture dello stato aperte al mondo globale del mercato, il progetto europeo riparte dallo schema elitario dell’origine, con l’encomiabile tentativo macroniano di renderlo popolare, accettabile ai popoli e ai corpi intermedi. Non si può sempre pensare che il meglio è passato, si finisce in preda a terribili malumori, bisogna salvare il salvabile, e pensare volgarmente che il meglio è nemico del bene, e che in un mondo con i suoi Trump e trumpismi viva la faccia se l’Europa riesca a tirarsi fuori dalla feccia della politica demagogica. Viva la faccia, e per quanto possibile, un po’ di ottimismo. Di stato, s’intende.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.