Giuliano Pisapia e Pier Luigi Bersani (foto LaPresse)

Baruffe sinistre

Marianna Rizzini

D’Alema, Pisapia, Bersani, il fantasma di Prodi e l’eterna partita a scacchi in cui la fine è sempre nota ma il risultato mai definitivo

Le pedine si spostano da sole, nella partita a scacchi fantasma anche detta “relazioni tra sinistre”. Non importa quanti giri e quanti balzi facciano. Il risultato è momentaneo, sfuggente: quello che c’è oggi potrebbe non esserci domani e già dopodomani si potrebbe tornare a ieri, in un rimescolamento persistente di personaggi e in un quadro di nostalgie-canaglia ricorrenti (esempi: la nostalgia della foto di Vasto, la nostalgia di Romano Prodi, la nostalgia delle “officine di idee” – variante: “cantieri” o “tavoli” –, la nostalgia di formule come “sinistra unita”, “campo vasto”, “insieme si vince”). Partendo dalla momentanea fine (domani è un altro giorno, non si sa mai), ci sono sulla scena Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano e leader di Campo

Partendo dalla fine, c'è
la discussione sull'ingombro effettivo di D'Alema. Partendo dall'ultimo degli infiniti inizi, c'è D'Alema

progressista, e Pier Luigi Bersani, ex segretario pd ora pilastro di Mdp. Da un palco di Ravenna, i due discutono sull’ingombro effettivo di Massimo D’Alema, ex premier ed ex segretario Pds nonché transfuga in Mdp e protagonista o convitato di pietra di ogni scontro a sinistra, l’ultimo dei quali ancora in corso. Riassunto non esaustivo: Pisapia ha detto che D’Alema è divisivo e che dovrebbe fare un passo di lato, D’Alema ha risposto dando di illuso a Pisapia. Ci si è messo di mezzo a quel punto l’ex governatore dell’Emilia Romagna Vasco Errani, che ha difeso D’Alema (“è una risorsa”) in chiave antirenziana, facendo impermalosire Pisapia (“allora faccio io il passo di lato e tu fai il leader”), mentre la concordia non regna tra Mdp e Campo progressista, dopo una settimana di strappi reali o apparenti – non senza intesa formale prima e durante (ma non dopo) un colloquio con il premier Paolo Gentiloni sulla manovra economica, rivelatosi poi in aula una sorta di finta, vista la diversità di posizioni e voto. Per ora: perché Bersani, dopo che Mdp ha votato lo scostamento dei conti pubblici sganciandosi però dalla nota di aggiornamento al Def, ha invitato i fratelli-coltelli di Campo progressista a darsi un tempo per l’unità a sinistra (un mese? un mese e mezzo?) anche se l’ex sindaco di Milano, in un momento di insolita vivacità sloganistica, ha detto che a lui, in politica, “piace la poligamia”. Ultima ma non ultima, la lettera aperta di Ezio Mauro, ex direttore di Repubblica, che invoca su Repubblica l’avvento di uno “spirito santo progressista capace di toccare le orecchie e gli occhi della sinistra italiana, liberando finalmente lo sguardo e l’ascolto, su se stessa e sugli altri”. (Epilogo momentaneo: il Pisapia fino all’altro ieri ulivista nell’animo, ieri non smentiva il proprio ulivismo di massima, tuttavia facendo capire di “non voler fare la fine” di Romano Prodi). Particolare aggiuntivo da decifrare: pare che Walter Veltroni, fondatore del Pd ed ex segretario pd, pur avendo avviato una seconda vita da documentarista e dopo aver fatto un intervento alla festa pd di Imola in cui ha evocato la pericolosità del “demone della divisione”, sia tornato al Nazareno (nel senso che ha di nuovo un ufficio nella sede del Pd).

 

Partendo invece dall’ultimo inizio, cioè da una settimana fa (infiniti sono infatti i nuovi inizi nel mondo a sé delle Cose Rosse, Arancioni e Rosso-Arancioni), c’è sulla scena sempre e comunque Massimo D’Alema che, nell’intervista al Corriere della Sera del 27 settembre, dice due frasi che mettono a soqquadro – si fa per dire – le giornate per un attimo baldanzose della gauche. Prima frase: D’Alema invita Pisapia (che oggi, a differenza di un mese fa ma non di tre mesi fa, dice di voler “lavorare” con Matteo Renzi a patto che Renzi non “comandi”), a “essere più coraggioso”, a candidarsi e a “prendere in mano il processo unitario”, ché non ci si può permettere, dice l’ex premier, spesso causa cosciente o involontaria di liti furibonde dentro e

La chimera dell'unità a sinistra
e le nostalgie ricorrenti: della foto
di Vasto, di Romano Prodi, dell'Ulivo, delle "officine di idee"

attorno al Pd, “di avere alla sinistra del Pd due liste in conflitto tra loro” e “sull’orlo della soglia di sbarramento”. Seconda frase, detta da D’Alema e specificata da D’Alema con lettera al Corriere del giorno dopo: il dialogo con il Pd è impossibile ma, a differenza di come poteva sembrare a una prima lettura, io non dico “mai con il Pd”. E c’è Pisapia, che una settimana fa puntava su Prodi “per un nuovo Ulivo” (corollario: la cosa potrebbe tentare anche l’ex premier Enrico Letta), ma che, come si è visto, dopo sette giorni di passione vede la parabola politica di Prodi come traguardo non auspicabile. Intanto, proprio quando l’amarcord ulivista s’affaccia, ne spunta un altro in parte confliggente, quello della suddetta foto di Vasto, foto che ritraeva insieme i leader di Pd-Sel e Idv, e che oggi dovrebbe comunque essere ritoccata per difetto in base alle moderne esigenze, vista l’esistenza di un Pd renziano che non potrebbe fare foto di gruppo con altri soggetti della gauche e considerata l’avversione manifesta di alcuni soggetti della gauche per il Pd renziano. Precedente: era il settembre 2011 e l’ex pm Antonio Di Pietro, ancora politicamente in auge, veniva fotografato alla festa nazionale dell’Idv in posa sorridente e speranzosa con Pier Luigi Bersani, allora segretario del Pd, e con Nichi Vendola, allora leader di Sinistra Ecologia e Libertà, sul palco di Palazzo D’Avalos a Vasto, con l’aria di chi ha appena siglato “l’entente cordiale” più importante della propria storia politica. “Qui riparte il centrosinistra”, diceva il Di Pietro che oggi, superata la metà della propria traversata nel deserto (dopo il fallimento elettorale di Idv nel 2013 e dopo un sedicente e non totalizzante ritorno alla vita contadina), ripete timidamente che sì, lui una mano a Bersani la darebbe volentieri (“non solo voterei ma parteciperei ad un progetto che si rifà alla coalizione unitaria di un tempo, come l’Mdp di Bersani”). Intanto Vendola, pur non essendo in campo in prima persona, il primo ottobre ha detto a Repubblica che “l’Ulivo è roba da sedute spiritiche” e che il presidente del Senato Pietro Grasso è “più radicale” di Pisapia, mentre i post-vendoliani di Sinistra italiana guardavano a Mdp, anche se in cuor loro non sapevano ancora se buttare via oppure no la suggestione della sinistra unitaria.

 

Dopo Vasto, comunque e per la cronaca, non andò benissimo. Tempo tre mesi (novembre 2011), e il governo Monti con avvento dei tecnici spazzava via l’alleanza fragile, tantopiù che il Pd appoggiava Monti e Idv e Sel no, e Di Pietro non perdeva occasione, non essendoci ancora Beppe Grillo a minacciare direttamente il patrimonio elettorale di Idv nello stesso campo manettaro, per sparare contro il presidente della Repubblica, i tecnici e i Dem conniventi. Poi venne l’estate, e Di Pietro si mise a lanciare segnali di rinnovata intesa con Vendola (ma non con il Pd), con ricorso al tormentone sui “partiti non allineati” ed emarginati da Monti, dal Pd e dal centrodestra. E però, sempre d’estate, Vendola sembrava riavvicinarsi al Pd: Di Pietro “ha scelto un’altra strada”, diceva il leader di Sel, e noi puntiamo su un “polo della speranza” alternativo alle forze “liberiste”. Man mano che l’anno 2012 procedeva, dunque, Vendola faceva capire di volersi candidare alle primarie del centrosinistra, ma senza chiudere a Di Pietro, il quale a sua volta si candidava leader di una “coalizione aperta” di “riformisti di centrosinistra” con un programma “fatto di legalità, solidarietà e sviluppo per costruire un’alternativa alle destre riformiste e al governo Monti”. Il Pd di Bersani, intanto, presentava la carta d’intenti “Italia bene comune”, guardando amichevolmente a Vendola. Risultato: alle politiche del 2013 andò come andò (25 per cento al M5s). E oggi, mentre Di Pietro ripropone una foto di Vasto minore con

Tra le foto stracciate (oltre a quella di Vasto), la sequenza “esterofila” del cosiddetto “patto del tortellino” in camicia bianca

il Bersani di Mdp, la suggestione ulivista ma non necessariamente prodiana dal lato Pisapia rende incerto il futuro di questi e di quelli (“… abbiamo un rapporto molto positivo e propositivo, non strumentale, con il mondo ambientalista, con il civismo, con l’associazionismo, laico e cattolico, con il cattolicesimo democratico che è stato importante nell’esperienza dell’Ulivo”, ha detto l’ex sindaco di Milano al Messaggero prima di trovarsi a dover scongiurare, come si è detto, una “fine” alla Romano Prodi). “Ritengo che culture, esperienze, percorsi anche diversi, uniti però nei valori e nei princìpi, e in grado di assumersi la responsabilità di governo, siano fondamentali. Le differenze possono essere una ricchezza se l’obiettivo è lo stesso. Bisogna essere capaci di valorizzare ciò che unisce”, è il mantra di Pisapia – mantra che cozza contro quello che è stato chiamato “l’ultimatum di Bersani”: o fate con noi subito un nuovo partito o ciao, ma è pure vero che in questa partita gli ultimatum non sono ultimativi. E a questo punto c’è un lettore di Repubblica che scrive sgomento a Ezio Mauro, in risposta alla lettera aperta del medesimo, che questa gli pare “una storia infinita”: “… leggendo il suo editoriale mi è sembrato di essere ritornato negli anni Novanta, o forse erano gli anni Ottanta, o no… erano gli anni Settanta. Lei poteva scrivere lo stesso editoriale in qualsiasi periodo storico della sinistra italiana e sarebbe stato sempre attuale, perché la storia della sinistra italiana è sempre la stessa. Divisione”.

 

Sia quel sia (da qui alle urne del 2018 può accadere e riaccadere di tutto), il sogno legato a un momento che si pensava magico per la sinistra persiste anche traslato sul piano estero, nonostante la sinistra sia oggi più o meno in crisi in tutta Europa (ma, ha detto sempre D’Alema al Corriere della Sera perché suocera intenda, “in Germania si è manifestata anche una grande stanchezza per la grande coalizione” e “in molti paesi si afferma una sinistra più radicale: Mélenchon in Francia, Podemos in Spagna, Corbyn in Inghilterra”). Persiste, il sogno del magico momento in cui l’unità pare cosa fatta e anche cosa vincente, nonostante si sia dovuta stracciare anzitempo la foto che Bersani, nel 2012, scattò con il vittorioso (ex) presidente francese Francois Hollande. “Un’altra Europa è possibile”, diceva l’allora segretario pd in attimi di wishful thinking non ancora messi a dura prova dal 25 per cento preso dal Movimento 5 stelle alle Politiche 2013 e dall’avanzata dei cosiddetti “nuovi populismi” tedeschi e inglesi.

 

Pisapia e Mdp concordi prima 
e durante (non dopo) l'incontro
con Gentiloni. Ma l'ultimatum
di Bersani non pare ultimativo

Per non dire della triste caduta nella polvere della foto-simbolo di quella che era stata chiamata, nel settembre del 2014 (tanto per cambiare), “nuova sinistra”: sul palco della festa dell’Unità di Bologna comparivano in sequenza e sorridenti, con pantaloni e camicia bianca senza cravatta, Matteo Renzi (allora anche premier oltreché segretario Pd), Manuel Valls, allora primo ministro francese, Pedro Sanchez, leader socialista spagnolo, Achim Post, segretario tedesco del Pse e Diederik Samson, leader laburista olandese. Si favoleggiava del cosiddetto “patto del tortellino” (“siamo un partito che è visto come una speranza in tutta Europa, è un risultato che deve lasciarci i brividi e darci responsabilità”, diceva Renzi). Vai a sapere che presto per il Pd, per il governo Renzi e per le sinistre europee tutte sarebbero iniziati tempi bui: referendum del 4 dicembre 2016 perso da Renzi; elezioni spagnole 2016 non vinte dalla sinistra e con problema Catalogna all’orizzonte; elezioni tedesche 2017 vinte da Angela Merkel con contorno di neo-destre arrembanti. Ma l’importante era (è) crederci. E, nel caso della “sinistra a sinistra del Pd”, fare finta di crederci, partire in quarta con i distinguo e soprattutto reiterare (e pazienza se ieri il segretario del Pd ed ex premier Matteo Renzi, alla direzione del Pd, ha aperto alle coalizioni al grido di “gli avversari non sono quelli che se ne sono andati via da qui”).

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.