Luigi Di Maio (foto LaPresse)

A Rimini la forza e le (tante) debolezze del M5s

Salvatore Merlo

I grillini hanno una straordinaria capacità di mobilitazione e d’inquadramento muscolare secondo rigidissime parole d’ordine, ma sono ancora un’organizzazione fragilissima e contraddittoria

Rimini. Modico nelle parole e trattenuto nei movimenti, Davide Casaleggio chiude i tre giorni di festa alla Fiera di Rimini stendendo, con voce piana e monocorde, un bilancio di numeri, partecipazione (“cinquantamila persone” in tre giorni, dice), ed errori compiuti, come l’evidente inadeguatezza della sua piattaforma digitale Rousseau, che venerdì è arrivata faticosamente, tra crolli e blocchi, al traguardo delle votazioni on-line per l’elezione di Luigi Di Maio, ma con l’andatura di uno zoppo che corre, appunto.

 

E dunque c’è sempre qualcosa di muscolare e insieme anche di terribilmente fragile nel Movimento cinque stelle, anche stavolta, anche a Rimini: i numeri indiscutibili, la partecipazione popolare ed emotiva, la definitiva trasformazione di un gruppo di ragazzotti in divi del selfie. E poi la capacità d’aver sedimentato nelle orecchie dei militanti parole bandiera, come “reddito di cittadinanza”, termini che oggi è sufficiente sventolare sotto gli occhi del grillino medio per iniettarli di sogni.

 

Ma poi ecco che Rousseau s’inceppa, ecco la creatura di Casaleggio che rivela una tragica debolezza e anche un difetto di partecipazione democratica: appena trentasettemila votanti, che sono poi, sembra di capire, i più militanti tra i militanti, un manipolo d’incoercibili che corrisponde, all’incirca, alle persone che si sono mobilitate d’entusiasmo in questi tre giorni, pagandosi tutto loro, per raggiungere Rimini da mezza Italia. Forza e debolezza, insomma, la rabdomantica capacità d’interpretare la rabbia su di un palco, e l’estrema difficoltà a trasformarla in qualcosa che funziona nella realtà.

 

 

 

Alla fine, dei tre giorni di Rimini rimarranno forse i fescennini di Grillo, le sue volgarità, le sue sgrammaticature intellettive, e la violenza evocata contro i giornalisti, cui lui finge di distribuire banconote dal palco, trattandoli da ignobili prezzolati, evocando così un disprezzo violento che ovviamente diventa poi violenza vera, fisica, quando a furia di essere caricata a molla dal suo mandante, la teppa aggredisce sul serio Enrica Agostini, della Rai, spintona i cameramen, esplode in fischi e urla di “venduti venduti” “vergogna vergogna”. Perché il filo conduttore dei tre lunghi giorni riminesi è tutto un “gliela facciamo vedere noi”, alla casta, ai giornalisti, alle banche, all’Europa, alle Ong… “Andiamoci a prendere questo paese”, è il saluto corsaro, l’invito al saccheggio, verrebbe da dire, urlato sabato sera dal palco, da uno dei tanti, interscambiabili peones del Movimento cinque stelle.

 


 

  Beppe Grillo “paga” i giornalisti (foto LaPresse)

 


 

E poi c’è Luigi Di Maio, candidato premier, forse nuovo leader del Movimento, lui che per due giorni consecutivi, prima con il discorso d’investitura e poi con una specie d’intervista composta da domande tratte da internet, con o senza cravatta, sempre illumina soluzioni definitive per ogni cosa, risposte semplici come un prelievo al bancomat a ciascuna delle grandi sfide della modernità, dalla disoccupazione giovanile all’immigrazione, dalla burocrazia alla sanità pubblica, dalla disparità economica alle energie rinnovabili, fino alla Costituzione che, ha spiegato, va probabilmente modificata per… “eliminare il vincolo di mandato”.

 

Ed è frettoloso sostenere che il Movimento sia cambiato, che Grillo abbia imboccato la via della pensione, com’è probabilmente una sfocatura prendere per buona l’investitura di Di Maio e in generale accostare analisi classiche di tipo politico ai rapporti, più o meno tesi, tra lui e altri deputati del Movimento, come Roberto Fico. E infatti Di Maio non è stato scelto dalle zoppicanti primarie nelle quali venerdì hanno votato trentamila persone, ma è stato scelto molto tempo fa dai padroni del blog, attraverso un lungo provino televisivo, un attento esame di empatia e telegenia, e forse persino di fedeltà, secondo regole che hanno a che vedere più con il marketing che con la politica. E questo già dovrebbe essere sufficiente a lasciar cadere l’idea piuttosto pigra di una “normalizzazione” del Movimento cinque stelle. Che è ancora una forza dotata di una straordinaria capacità di mobilitazione e d’inquadramento muscolare secondo rigidissime parole d’ordine, ma è ancora un’organizzazione fragilissima e contraddittoria quando prova a misurarsi con la democrazia, le idee, la cultura, e non solo quella politica.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.