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Perché il referendum lombardo-veneto non va derubricato a bizzaria

Rocco Todero

La consultazione esprime un disagio profondo, radicato e non occasionale che non va sottovalutato 

Domenica 22 ottobre gli elettori di Lombardia e Veneto saranno chiamati a recarsi alle urne per esprimere la loro opinione sul referendum per l’autonomia regionale. Si tratta di una consultazione, (voluta dalle assemblee legislative delle due regioni) con la quale verrà chiesto agli elettori se sono favorevoli o contrari a ulteriori forme e condizioni di autonomia regionale ai sensi e per gli effetti dell’articolo 116, comma terzo, della Costituzione Repubblicana. In caso di esito positivo potrà essere intrapreso un percorso che, d’intesa con lo stato, porterà ad attribuire alle regioni condizioni particolari d’autonomia nelle materie di legislazione concorrente di cui all’articolo 117 della Costituzione, ma che non vedrà espandere in alcun modo la loro l’autonomia finanziaria.

  

Il tema del referendum lombardo-veneto sembra essere rimasto sino adesso sotto traccia nel dibattito nazionale. Dai vertici del Partito democratico non s’ode alcun commento degno di particolare riguardo, alcuni costituzionalisti ritengono di dovere minimizzare l’importanza della consultazione referendaria anche alla luce della sostanziale irrilevanza giuridica degli effetti che potrebbe produrre, la sinistra radicale si è persino retoricamente chiesta in un convegno, quasi a mo’ di scherno, “ma quale autonomia?”.

  

L’atteggiamento di chi tenta di derubricare il referendum del 22 ottobre alla stregua di una piccola bizzarria istituzionale, di marca esclusivamente leghista, rischia però di sottovalutare la reale natura del disagio profondo, radicato e non occasionale di cui la consultazione sembra essere semplicemente l’ultima manifestazione e non consente d’inserirla all’interno del contesto di più ampio respiro dentro il quale dovrebbe essere, invece, adeguatamente collocata.

  

Occorre innanzitutto ricordare come in origine (anche in occasione di questo referendum) la reale volontà delle istituzioni regionali fosse quella di potere chiedere agli elettori la loro opinione circa l’opportunità d’istituire una Repubblica veneta indipendente e sovrana e sulla necessità d’introdurre una disciplina giuridica che consentisse di trattenere sul territorio almeno l’80 per cento dei tributi pagati annualmente dai cittadini veneti all’amministrazione centrale o di diventare, in alternativa, una regione a statuto speciale.

  

E’ stata la Corte costituzionale (su sollecitazione del governo centrale) che di fatto ha impedito, invocando il rispetto dell’unità nazionale e la necessità di salvaguardare il principio di solidarietà nella distribuzione dei tributi erogati allo stato, che sulla scheda elettorale comparissero i quesiti originariamente pensati dall’assemblea regionale. Ma la volontà politica era stata netta e risoluta sin dal principio: richiesta d’indipendenza, d’autonomia finanziaria o dello statuto speciale. D’altronde, nel corso di appena venticinque anni, Lombardia e Veneto hanno tentato almeno quattro volte d’ottenere il consenso del governo e della Corte Costituzionale per potere celebrare un referendum d’impronta autonomista, senza, tuttavia, ottenere mai alcun apprezzabile risultato.

  

Già nel 1992 il Veneto aveva manifestato con legge regionale la volontà di indire un referendum per introdurre un reale regime di autonomia impositiva e finanziaria e per sovvertire il criterio di ripartizione delle competenze fra stato e regioni al fine di consentire a queste ultime di estendere la loro competenza in tutte le materia non tassativamente attribuite al legislatore nazionale (idea poi recepita con la riforma costituzionale del 2001 voluta dal centrosinistra). Davanti al diniego imposto dalla Corte costituzionale la regione veneto ha riproposto inutilmente la medesima questione nel 1998, seguita, subito dopo, dalla Lombardia che con delibera del Consiglio regionale del 15 settembre del 2000 ha tentato di chiedere agli elettori se fossero d’accordo d’intraprendere iniziative istituzionali necessarie alla promozione del trasferimento delle funzioni statali in materia di sanità, istruzione e polizia locale.

 

Vi è da rammentare, ancora, come nel corso del medesimo quarto di secolo, Lombardia e Veneto siano state interrottamente amministrate da Forza Italia e Lega nord, senza che mai la guida di un governo regionale di centrosinistra abbia rappresentato una possibilità politicamente concreta o che l’influenza di formazioni politiche a vocazione centralista abbia mai avuto soverchia consistenza. Si tratta delle due regioni italiane con il più elevato residuo fiscale della penisola, quelle che trasferiscono alle altre regioni italiane circa 54 miliardi di euro (la Lombardia) e 18 miliardi di euro (il Veneto) l’anno e che possono vantare le migliori percentuali di spesa pubblica sul prodotto interno lordo realizzato.

  

Da venticinque anni ininterrottamente queste due regioni esprimono una rappresentanza istituzionale e una produzione legislativa che manifestano, senza tema di smentita, un’esigenza profonda e radicale che tenta di avere sbocco attraverso forme democratiche ma che il resto della nazione fa finta di non percepire o di non potere assecondare.

 

Nel 2010 il prof. Luca Ricolfi ha definito la questione lombardo-veneta come parte del più ampio fenomeno denominato “Il sacco del nord”, e ha messo in guardia dal pericolo di distruggere la gallina dalle uova d’oro, perpetuando un sistema di tassazione insopportabile, di spesa pubblica inefficiente ed eccessiva, di distribuzione territoriale delle risorse iniqua e irragionevole. Il referendum del 22 ottobre non è altro che la replica di quell’ammonimento e di tutti quelli caduti nel vuoto nei venticinque anni precedenti. Per ironia della sorte, però, la migliore risposta alle istanze condensatesi nel referendum autonomista potrebbe (in teoria) cominciare ad arrivare qualche giorno dopo la sua celebrazione, dalla Sicilia dove il 5 novembre si terranno le elezioni per la scelta del nuovo governatore dell’Isola.

 

La regione italiana con il peggiore residuo fiscale (la Sicilia ha un saldo negativo fra entrate e spese di circa 9 miliardi di euro l’anno) dovrebbe cominciare a dimostrare che le legittime preoccupazioni dei concittadini lombardi e veneti potranno realisticamente scemare nel corso del tempo perché si inaugurerà nell’Isola un nuovo corso di rigore nella spesa pubblica, nella lotta all’assistenzialismo, nella richiesta d’efficienza dei processi che vedono coinvolta la pubblica amministrazione, nella riduzione del perimetro della amministrazione regionale e dell’area occupata dal pubblico impiego sopratutto.

 

Potrebbero essere proprio i candidati alla presidenza della regione Siciliana i primi a dare risposte concrete, già nel corso della campagna elettorale, ai tentativi del nord est di disintegrare, almeno politicamente, l’unità dello stato perché non sopportano più che sia sorretta da una distribuzione territoriale delle risorse economiche che si ispira solo apparentemente al principio di solidarietà nazionale e che pratica, invece, in concreto, la peggiore fra le dissipazioni delle risorse economiche individuali. Qualcuno vorrà assumersi questa responsabilità?

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