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L'articolo di Galli della Loggia sui governi deboli è condivisibile. Poteva scriverlo decenni fa

Giuliano Ferrara

A realizzare quanto evidenziato da GdL ci provarono Craxi, Berlusconi e Renzi. Non furono però mai aiutati dai commentatori politici

Ho passato tutta la mattina di ieri a cercare la data dell’editoriale di Ernesto Galli della Loggia nel Corriere. Conteneva analisi e tesi condivisibili: in Italia i governi sono deboli, il presidente del Consiglio un coordinatore alla pari con i suoi ministri, senza forza politica autonoma, dipendente dai poteri del Quirinale e da maggioranze gracili e politicamente divise, che non gli rispondono, da qui l’eterno governo del rinvio o non-governo, l’assenza di un quadro di comando politico e amministrativo, il delirio delle autorità condivise e dei pareri obbligati, le supplenze improprie, e tutto appeso alla legge elettorale, che se non è un maggioritario serio serve solo a riprodurre la tecnica della mediazione floscia al vertice del potere, e a selezionare le cose da rinviare per paura del decisionismo. Un testo così poteva essere stato scritto all’inizio degli anni Ottanta, quando Craxi il decisionista ci provò. Oppure all’inizio degli anni Novanta, quando ci provò Berlusconi con la sua religione del maggioritario, o di qua o di là. Oppure ancora al cominciamento della legislatura che si sta per esaurire, quando dopo l’esperienza precaria e penosetta del governo Letta, vincitore della lotteria presidenziale del dopo-Bersani, era arrivato alla guida dell’esecutivo Matteo Renzi, con un vasto programma di riforma incentrato sulla semplificazione parlamentare e, guarda un po’, una legge elettorale comprensiva del ballottaggio, cioè lo strumento per eleggere non una rappresentanza in balia di tutte le correnti, che è quel che teme per il futuro Galli della Loggia, ma una maggioranza per governare e un’opposizione per controllare. Invece la data era proprio quella riportata dal giornale che ospitava il pezzo, la data di ieri.

 

Non si può non riconoscere che nel campo dell’intransigentismo e del purismo maggioritario, magari con la famosa e sfortunata lista di Massimo Severo Giannini, Galli della Loggia abbia fatto qualcosa impegnandosi personalmente. Ma nell’ambito della politica del possibile, se si pensi a Craxi, si ricorderà il malanimo contro una personalità alla fine considerata inaccettabile e la sua costellazione di forze magnetiche protese verso la famosa Grande Riforma. Se si pensi a Berlusconi, l’idea fissa fu quella del partito di plastica e dell’impresentabilità sociale e culturale di una leadership venuta dall’imprenditoria, che ha realizzato l’alternanza sognata da generazioni. Quanto a Renzi, bè, qualche sentimento di adesione primitiva si è subito lasciato travolgere dall’antipatia per il boy scout, per l’uomo di scarse letture e dai calzoni corti, per qualcuno che non ha mantenuto le promesse nonostante la svolta governativista e il controllo parlamentare inaudito che avevano portato alla riforma elettorale e a quella costituzionale in un quadro di apertura ai mercati e alle condizioni necessarie alla ripresa dell’economia produttiva, che in parte è finalmente arrivata. Insomma, chi è più preoccupato del ritorno al proporzionale, e arriva a imputare al bravo e misurato Gentiloni, che fa quello che può e non pretende di più, l’innesco di una nuova catena di non-governo, fa parte di un establishment che ha delegittimato il senso stesso di una triplice esperienza ultratrentennale, riformatrice, che andava nella direzione del possibile da acquisire e non del libro mastro e canonico delle cose da fare al di fuori delle condizioni politiche di necessità, date, concrete.

 

Per questo il commentariato italiano tende a ripetersi, ed è sempre interessante leggere testi così pertinenti sul nostro stato di cose, ma è un po’ monotono il loro riscriversi quasi automatico a ogni fase politica, preconizzando il dover essere subito dopo che l’essere delle cose è stato cassato.

 

Chi si è dannato per Craxi Berlusconi e Renzi, magari per ragioni di tigna teppistica come le nostre e non per amore di Patria, ora ci rimane di stucco, di princisbecco. Il proporzionale torna sulle ali della Corte costituzionale, una magistratura naturalmente conservatrice che si è mossa promuovendo il Consultellum, orizzonte difficilmente superabile in qualche settimana di dialogo tra forze sfiduciate reciprocamente e già impegnate nella caccia al voto (però, auguri); e lo ha proposto perché si riteneva da più parti, ed era addirittura iscritto nella Costituzione più bella del mondo appena ratificata e inchiodata da un incredibile esito referendario il 4 dicembre scorso, che occorresse rimuovere gli ostacoli maggioritari a una piena rappresentanza del voto popolare. A questo punto, a quanto pare, il faut faire avec, bisogna starci. E non sarà male anche pensare a certi risvolti, magari per consolarsi. La riforma in senso anglosassone o francese o spagnolo delle istituzioni italiane si è infranta contro la storia del paese, a parte le viltà, gli opportunismi e le fesserie della casta parapolitica e intellettuale. La mancanza del modello Westminster fondato sul bipartitismo e la giurisprudenza al posto della rigidità costituzionale, del presidenzialismo a sfondo bonapartista, del centralismo castigliano e monarchico, tutte soluzioni che hanno i loro contrappesi negativi e non sempre superano la stessa prova per cui furono concepite da generazioni e generazioni di costruttori delle nazioni d’Europa, è la mancanza di un Risorgimento con eroi e con forze-guida legittimanti un’impresa nazionale degna del nome. Abbiamo avuto anche una bella storia, per carità, e alla fine centocinquanta anni di unità e oltre, e quasi settant’anni di Repubblica, con la travolgente e folle impresa del fascismo di mezzo, parentesi o autobiografia italiana che sia stata, ci hanno restituito un volto che è il nostro volto, sul quale il maggioritario e il decisionismo sono stati applicati come una maschera posticcia. Nel frattempo delle cose importanti, gravate da un immenso debito pubblico ma anche illuminate da una grande capacità di sopravvivenza e sviluppo creativo, sono state compiute. Vorrei tanto che non fosse così, perché mi era sembrata una soluzione razionale quella incarnata dalle tre leadership di cui ho fatto menzione, ma probabilmente è così. Sennò Galli della Loggia non sarebbe costretto a riscrivere da trent’anni e più sempre lo stesso articolo.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.