Lothar Matthäus e Matteo Renzi

Si chiama Matthäus il vero modello tedesco che Renzi dovrebbe seguire

Claudio Cerasa

Arretrare quando i tempi cambiano. La storia dell’ex campione della Germania potrebbe tornare utile al segretario del Pd. Finita l’estate, Renzi dovrà scegliere che cosa fare con questo governo. Investirlo di fiducia o investirlo con una ruspa? Ipotesi per una possibile scommessa vincente

Vi ricordate Lothar Matthäus? Quando la politica avrà completato la sua breve parentesi estiva, è assai probabile che al ritorno delle vacanze molti parlamentari, e molti leader di partito, saranno impegnati a rispondere a una domanda che riguarda un tema che ha perseguitato l’intera legislatura e che c’è da scommettere che Silvio Berlusconi proverà a far tornare di attualità: la cambiamo o no questa legge elettorale? E in particolar modo, lo vogliamo fare o no questo benedetto modello tedesco? La risposta a questa domanda oggi non ci interessa nel modo più assoluto ma dovendo analizzare il tema se sia giusto o no, soprattutto per Matteo Renzi, prendere in esame il modello tedesco ci verrebbe da dire che sì, il modello tedesco conviene a Renzi, eccome se gli conviene. Ma il modello tedesco a cui pensiamo oggi non ha nulla a che fare con il modello proporzionale. Ha a che fare con un modello che coincide con il nome del calciatore che avete letto all’inizio di questo articolo. Proprio lui: Lothar Matthäus. Proviamo brevemente a rinfrescarvi la memoria. Lothar Matthäus è stato uno dei giocatori più forti mai avuti dalla nazionale tedesca, al punto da essere definito da Diego Armando Maradona “il miglior avversario che abbia avuto in tutta la mia carriera”. 

 

Ha giocato per quattro anni all’Inter, tra il 1988 e il 1992. Ha vinto un mondiale di calcio, quello famoso di Italia 90, anno in cui ricevette il pallone d’oro. Dal 1992 è tornato a giocare in Germania, con il Bayern Monaco, dove è rimasto fino al 2000. Tutti ricordano Matthäus per la sua forza fisica devastante e per la sua straordinaria capacità di segnare dei gol pur non essendo un centravanti. Ma molti ricordano Matthäus per una scelta destinata a fare storia. A un certo punto della sua carriera, nel 1994, quando in tanti lo davano per finito, scelse di dar vita a una particolare discesa nel campo. Matthäus giocò per una vita da centrocampista ma nel momento in cui capì che in quel ruolo non era più in grado di dare il meglio fece un passo indietro non per uscire dal campo ma per arretrare sul campo. Dal 1994 fino al termine della sua carriera Matthäus incantò la Germania dalla linea difensiva e per molti anni riuscì a dettare i tempi alla sua squadra stando lì nelle retrovie. I tempi erano cambiati e Matthäus si adattò a quei tempi senza disperarsi ma trovando un altro modo per trascinare la squadra, forte del suo nuovo ruolo e della conquistata fascia da capitano. Meno gol, più assist. Meno incursioni, più vittorie. Meno spettacolo, più risultati. La storia dell’ex pallone d’oro tedesco è una storia che può contenere una lezione importante per la politica e soprattutto per il Pd di Matteo Renzi, che in un certo modo oggi si trova in una condizione simile a quella vissuta dal vecchio Lothar: i tempi sono improvvisamente cambiati e il talento va adattato ai nuovi tempi, senza disperarsi.

 

A voler tradurre politicamente l’insegnamento di Matthäus – che tra l’altro in quegli anni al Bayern Monaco fu allenato per molto tempo da Giovanni Trapattoni, il cui catenaccio non è uno stile di gioco così diverso da quello messo in campo da Paolo Gentiloni – si potrebbe dire che in questa fase della sua carriera Matteo Renzi deve rassegnarsi a una doppia idea: le possibilità di tornare a ricoprire lo stesso ruolo avuto nei mille giorni di governo sono pochissime ma le possibilità di tornare a ricoprire un ruolo centrale sono infinite. Vale la pena provare a capire come si può fare. Negli anni passati al Bayern, Matthäus riuscì a valorizzare e a far crescere campioni che molti di voi ricorderanno. Christian Ziege. Jean-Pierre Papin. Alain Sutter. Mehmet Scholl. Thomas Helmer.

 

Allo stesso modo, il compito di Renzi oggi è quello di fare una cosa che finora non è riuscito a rivendicare fino in fondo: valorizzare una classe dirigente nata e cresciuta sotto l’ombrello renziano che oggi sta mostrando di avere buoni attributi per garantirsi un futuro. Subito dopo l’estate, per essere chiari, il segretario del Pd dovrà decidere quale strada prendere. Se sfruttare la leadership collaterale di Paolo Gentiloni per rafforzare se stesso e dunque il proprio progetto politico oppure se forzare la mano scommettendo su una rottura e una divisione con i protagonisti di questo governo, arrivando al punto di non intestarsi nulla di quello che farà Gentiloni nei prossimi mesi, e trasformando anzi gli errori e le occasioni perse dal premier in un tema di forte dialettica della prossima campagna elettorale. E’ possibile che il segretario del Pd alla fine scelga di rompere emotivamente con questo governo ma è ancora più possibile e diremmo probabile e oseremo dire auspicabile che i mesi estivi possano essere utili per il leader del Pd per rendersi conto di un fatto elementare: il Renziloni, la forma di governo ibrida tra un Renzi che imposta e un Gentiloni che finalizza, è ormai una creatura della politica che ha una sua dimensione e tanto vale sfruttarla fino in fondo.

 

Il modo per farlo esiste ed è sotto gli occhi di tutti. Al contrario di quello che spesso si pensa, una classe dirigente nata sotto il protettorato renziano esiste e paradossalmente (o forse non paradossalmente) questa classe dirigente ha mostrato di avere buoni numeri proprio nel momento in cui Renzi è stato costretto a fare un passo indietro come il vecchio Lothar (il nome di Matthäus è anche il nome del mitico consigliere di Mandrake, Lothar, e come ricorderete quel nome venne affibbiato anche ai principali collaboratori di D’Alema al tempo del suo governo: Minniti, Velardi, Rondolino, Latorre). Il governo Gentiloni, premier significativamente popolare, è anche il governo Minniti, è anche il governo Calenda, è anche il governo Delrio, è anche il governo Martina, è anche il governo Franceschini, è anche il governo Orlando, per parlare dei ministri che registrano oggi un livello di popolarità molto alto, e forse l’unica e vera alleanza a cui l’ex premier dovrebbe puntare nei prossimi mesi è questa. E l’alleanza si potrebbe concretizzare in un modo semplice: trasformando le teste di serie del governo in teste di ariete su cui scommettere in campagna elettorale, chiedendo così ai Minniti, ai Gentiloni, ai Delrio, ai Franceschini di candidarsi come capilista proprio nella camera che Renzi voleva abolire e che invece tornerà a essere decisiva nella prossima legislatura: il Senato.

 

Può piacere o no ma una classe dirigente complementare a quella molto fiorentina maturata nel governo precedente sta nascendo nel centrosinistra e ciascuna di queste leadership che abbiamo elencato ha una peculiarità particolare che non sarà sfuggita agli osservatori meno disattenti: la trasversalità. Lo è Gentiloni. Lo è Minniti. Lo è Calenda. Lo è Delrio. Lo sono in molti. Il partito della nazione che poteva nascere con il sì al referendum si sta reincarnando nel governo della nazione. Far finta che tutto questo non stia accadendo, e far finta che questo governo non stia gestendo bene molte cose che il governo precedente aveva messo in cantiere (dalle banche ai migranti passando per la flessibilità e il sostegno alle imprese), sarebbe un errore. Dopo l’estate c’è da scommettere che il modello tedesco tornerà ad avere una sua centralità nella campagna elettorale. Ma se c’è un modello tedesco che il leader del centrosinistra deve seguire, quel modello oggi dovrebbe essere quello che avete capito. Non significa fare un passo indietro, significa capire che il ruolo offerto dal nuovo contesto della politica è diverso rispetto a quello di un tempo, e prima lo capirà e prima Matthäus Renzi riuscirà a trasformare in oro il contributo offerto dai sui Lothar.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.