Virginia Raggi (foto LaPresse)

Clientelismo a Cinque stelle

Ventisettemila impiegati dal comune di Roma. Atac, Ama, Acea. Ecco come funziona lo scambio tra inefficienza e voti che garantisce il sistema Raggi

Roma. Bruno Rota, ormai ex direttore generale, non sarà costretto a rischiare di macchiare il suo curriculum con un fallimento nell’azienda dei trasporti di Roma (Atac) e il M5s non dovrà affrontare i malumori dei circa dodicimila impiegati di questo carrozzone che, con il suo debito di 1 miliardo e trecentocinquanta milioni di euro, in qualsiasi città del mondo sviluppato sarebbe già con i libri contabili in tribunale. L’allontanamento di Rota, reso ufficiale ieri pomeriggio, conveniva a tutti gli attori di questa commedia. Il manager non perde la faccia, Virginia Raggi non riforma l’azienda. E d’altra parte Atac, come il resto delle disastrate e disfunzionali municipalizzate di Roma, è solo una macchina per il consenso. I dipendenti pubblici sono sessantamila. Considerando coniugi e figli si arriva a circa duecentoquarantamila persone. Un bacino elettorale organizzato e decisivo, capace di mobilitarsi, e che il M5s ha conquistato in questi ultimi anni, accarezzando per il verso giusto la miriade di sigle sindacali (quindici nella sola Atac, un sindacato ogni mille dipendenti) che scambiano privilegi per diritti. Chiunque abbia preso sul serio l’ipotesi di riformare le aziende se n’è poi andato, o è stato cacciato.

 

Le figure più tecniche, quelle che guardavano a far quadrare i conti, anche quando appartenenti al giro di Beppe Grillo o di Davide Casaleggio, sono tutte saltate. Una dopo l’altra. Prima i manager di Ama (nettezza urbana) e Atac, nominati da Ignazio Marino, cioè Daniele Fortini e Marco Rettighieri, i due dirigenti che avevano iniziato un faticoso processo di riforma interna, arrivando a contrasti durissimi con i micro sindacati di base, come quello di Micaela Quintavalle, detta “la pasionaria”, un’autista di autobus vicina ai Cinque stelle, una giovane donna che guida un gruppo capace di bloccare la città grazie alla determinazione (anche violenta) dei suoi soli trecento iscritti. All’Atac, che ha un record stellare di assenteismo sul lavoro (il tasso di assenteismo nel comparto pubblico romano è stato calcolato in un rapporto della gestione commissariale di Francesco Paolo Tronca: raggiunge il 23 per cento, ovvero ogni giorno un dipendente su quattro non si presenta al lavoro) è impossibile persino ottenere che gli autisti controllino i biglietti. I sindacati si oppongono, e coccolati dalla politica (cui i loro sostegno fa comodo) sembrano mirare a far lavorare il meno possibile e il peggio possibile i loro iscritti. In Atac i sindacati gestiscono persino la mensa. Così, tra i manager, gli assessori e i consulenti tecnici, chi ha un minimo di professionalità capisce di non avere copertura dal Campidoglio: il vero mandato politico dell’amministrazione Raggi, malgrado la propaganda e i concorsi per titoli, è quello di lasciare le cose come stanno. L’amministrazione Raggi ha infatti garantito il pagamento del salario accessorio a pioggia, nonostante le controindicazioni del ministero delle Finanze; ha reintrodotto i consigli di amministrazione che Marino aveva cancellato; ha rinunciato alle turnazioni e agli spostamenti coatti di personale; ha persino confermato gli emolumenti delle centinaia di quadri dirigenziali intermedi di Ama, Atac e Acea nonostante gli spaventosi buchi di bilancio.

 

Difatti tutti i professionisti chiamati a gestire questa immobile catastrofe mollano. Tutti. Uno dopo l’altro. Il primo settembre 2016 era stato il turno delle dimissioni dell’assessore al Bilancio Marcello Minenna, bocconiano e dirigente della Consob, entrato in conflitto con Raffaele Marra e il sindaco Raggi. Minenna è stato poi sostituito con l’organizzatore della campagna elettorale di Raggi, l’oscuro Andrea Mazzillo, un signore che scrive nel suo curriculum di essere “commercialista” e “professore”, ma non risulta che sia né l’uno né l’altro. Nessuno con un curriculum accettabile voleva prendere quel ruolo. A fine settembre, poco dopo Minenna, aveva preso cappello anche Stefano Fermante, ragioniere generale del Campidoglio. Mai sostituito. Mentre lo scorso 31 marzo la Raggi ha licenziato Simona Laing, una manager che aveva portato in attivo, dopo decenni, il bilancio della rete di farmacie di proprietà del comune. Certo appariva incredibile che il comune di Roma riuscisse a perdere denari con un business, quello delle farmacie, che arricchisce chiunque. Ma appare ancora più stupefacente che il primo manager che inverte il passivo venga mandato via. Guarda caso Laing s’era messa contro i dipendenti, era contestatissima da quei sindacati locali con i quali il Movimento cinque stelle ha stretto un patto politico-elettorale formidabile. Persino Massimo Colomban, l’imprenditore veneto amico di Casaleggio, l’uomo che era stato chiamato all’assessorato alle Partecipate per riorganizzarle e rimettere in moto la macchina in panne, ha annunciato le proprie dimissioni per settembre. Colomban non è riuscito a fare nulla, perché è sulla conservazione della palude, dello status quo, che si fonda il rapporto di scambio tra il M5s romano e alcune organizzatissime lobby cittadine. Quelle del pubblico impiego (ventiseimila persone, esclusi i famigliari), ma anche i circa settemila tassisti. I più facinorosi dei quali, quelli che a febbraio manifestavano con i tirapugni in Largo del Nazareno contro Uber, come il famigerato gruppo dei “soffokati”, sono addirittura organici al M5s, amici di Paola Taverna, che li ha sostenuti ottenendo che votassero in massa per la Raggi. Dunque pubblico impiego, tassisti, e poi l’incalcolabile bacino elettorale dei commercianti ambulanti, al quale l’amministrazione, con il presidente della commissione Commercio Andrea Coia, ha regalato un regolamento comunale che è stato paragonato a una sanatoria dell’abusivismo commerciale. In una città con tassi di astensionismo elettorale sempre più elevati, e in cui il voto d’opinione quasi non esiste (come nel peggiore meridione d’Italia), vince chi ha con sé i gruppi capaci di mobilitarsi. Il segreto del M5s a Roma è tutto qua, una forma di consociativismo clientelare che tra urla e minacce rivoluzionarie in realtà asseconda i guasti storici della città. E infatti poi succede che non funzionano i servizi, gli autobus vanno a fuoco, ci sono incidenti nella metro, e per la prima volta in duemila anni rischia pure di non esserci l’acqua.