Marco Minniti, a sinistra, e Angelino Alfano (foto LaPresse)

Alfano e Minniti, la strana coppia di Libia

Salvatore Merlo

Non si sopportano, non collaborano, uno lavora troppo e l’altro troppo poco

Roma. L’uno, il calabrese brevilineo, viene descritto come sgomitante, prepotente e muscoloflettente, tanto che i suoi stessi colleghi di governo, con una punta di compiacimento maligno, lo raccontano impegnato a giocare a Italo Balbo in Libia, nel suo studio del Viminale, arredato com’è d’una miriade di modellini di jet da combattimento, un po’ governatore di Tripoli e un po’ Charlie Chaplin con il mappamondo. Un uomo che mantiene nelle sue capacità una fede dolcemente incrollabile, sorda a ogni scetticismo, superiore a ogni ironia. L’altro, invece, quello lungo e diritto come un maggiordomo, il siciliano, lo dipingono con una sorta di tenero compatimento, il ministro degli Esteri che è venuto a sapere dell’intervento diplomatico di Macron in Libia a cose fatte, e che ieri ha accolto il suo omologo francese, a Roma, con un viso dall’espressione attonita e satolla, un industrioso, indomito fannullone della politica internazionale le cui energie da mesi si disperdono nel tentativo di trattenere i parlamentari in fuga dal suo partitino, e che ieri – mentre salutava i diplomatici riuniti alla Conferenza degli ambasciatori – ogni tanto spariva, con il cellulare in mano, sudando e tentando disperatamente di piazzare, al telefono con Gianfranco Micciché, qualche suo consigliere regionale di Caltanissetta nelle liste siciliane di Forza Italia.

 

E confusione e farsa non essendo mai molto lontane dagli orizzonti politici italiani, ecco allora Marco Minniti e Angelino Alfano, la coppia ministeriale che all’incirca gestisce l’intrico libico, e che martedì ha assistito, con diverso trasporto, alle strette di mano che si sono scambiati a Parigi, di fronte alle telecamere e al presidente della Francia, i duellanti di Libia, Serraj e Haftar, il boss di Tripoli e il boss di Bengasi, i protagonisti dello stallo nordafricano, i due uomini che più incidono sull’emergenza migranti che si è scatenata dal 2011 sulle coste italiane. Ecco dunque Minniti, cioè l’uomo che dal ministero dell’Interno si muove quasi come un ministro degli Esteri, dunque riceve nel suo studio capi tribù beduini e petrolieri, gioca con le lingue e con i servizi segreti, vola in Tunisia e difende la posizione di Serraj, cui ieri ha fatto avere le navi italiani per pattugliare le coste (“perché a noi conviene che la Libia resti unita, mentre ai francesi no”), scavalca deleghe e colleghi, esercita una sua diplomazia vasta e parallela che talvolta indispettisce persino Paolo Gentiloni. Ed ecco invece Alfano, l’uomo che dovrebbe gestire la diplomazia regolare, esercitare pressioni diplomatiche all’interno della Commissione europea e all’interno della compagine disordinata della Libia, ma che agli affari del nordafrica volge in genere lo sguardo di un vitello appena sospinto sul treno diretto al mattatoio di Chicago, insomma il ministro degli Esteri che i nostri ambasciatori definiscono, con inevitabile ed eufemistica diplomazia, “una presenza decorativa”.

 

E ovviamente i due uomini, così diversi e così diversamente appassionati, non si piacciono, non si capiscono, e figurarsi se collaborano. Ma come potrebbero mai? “In assenza di un ministro degli Esteri mi vedo costretto a dichiarare guerra all’Austria”, aveva detto scherzosamente (ma neanche troppo) Minniti al capo del governo Gentiloni, qualche giorno fa, mentre il ministro degli Esteri austriaco pretendeva che i migranti venissero rinchiusi a Lampedusa e minacciava la chiusura del Brennero come ritorsione, una sparata violentissima cui Alfano aveva risposto con un sincero sorriso pieno di denti, simile a un elegante antropoide svegliato a fatica. “Sono solo battute da campagna elettorale”, diceva Alfano. “Col cavolo!”, rispondeva Minniti. E in mezzo Gentiloni, con pazienza meticolosa, a presidiare la pace domestica, col suo piglio di genere mite e quasi triste, specialista, in queste occasioni, nel farsi sempre più remoto, come distaccato e composto in una specie di eterea, impalpabile materia, ma pure capace di fare lui le veci dei suoi ministri, dunque di chiamare personalmente il capo del governo austriaco, Christian Kern, ottenendo che smentisse il suo sbrigliato ministro degli Esteri, “non prendiamo improbabili lezioni”. Era un governo pensato (da Matteo Renzi) per durare pochi mesi, e invece Gentiloni arriverà a fine legislatura. “Se l’avessimo saputo, tante cose sarebbero state diverse. A cominciare da alcune deleghe ministeriali”, dicono. E dev’essere vero.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.