La politica ai tempi dell'anticasta

David Allegranti

La prossima campagna elettorale? Un incubo. Niente rimborsi pubblici, tetti ai contributi dei privati, spettro di avvisi di garanzia

Roma. “I nuovi parlamentari saranno eletti in libertà provvisoria”. Maurizio Bianconi, deputato del gruppo misto, ex tesoriere del Pdl, ex fittiano, aretino dalla battuta affilata, dice che la prossima campagna elettorale per le Politiche sarà un disastro, fra soldi che non ci sono, soldi che servirebbero e, al Senato, collegi immensi grandi quanto le regioni, nei quali gli aspiranti detentori di scranno a Palazzo Madama dovranno far la spola fra un confine e l’altro. Per non parlare delle vicende giudiziarie. Il reato di traffico di influenze, introdotto con la legge Severino per la lotta alla corruzione, non garantirà serenità a chi deve raccoglier soldi e preferenze, dopo anni di onorata e rutilante antipolitica. “I nuovi eletti saranno sotto scopa per tutta la legislatura”, dice Bianconi, mentre alla Camera si discute di eliminazione del vitalizio, su proposta di legge presentata da Matteo Richetti, mentre Beppe Grillo è appollaiato in tribuna contro la casta e il PP, Partito Pauperista, avanza a grandi falcate, conquistando consensi trasversali. Tagliando, abolendo, rivedendo, sforbiciando, accorciando. La politica al tempo dell’anticasta. Niente più quattrini, insomma, con il rischio pure di vedersi piovere in testa gli avvisi di garanzia. “Tra voti di scambio e traffico di influenze, le procure si sbizzarriranno. Faremo campagna elettorale con l’avvocato”, dice il senatore di Ala Riccardo Mazzoni. E, appunto, senza più soldi pubblici. La legge numero 13 del 2014 ha previsto – dopo un periodo di graduale riduzione dei rimborsi durato circa tre anni – l’abolizione del flusso di denaro pubblico nelle casse dei partiti, che si sono dovuti arrangiare con il 2 per mille, raccogliendo peraltro poco. Su 40.770.277 milioni di contribuenti, nel 2016 solo 971.983 persone hanno destinato il loro 2 per mille a una formazione politica, per un totale di 11.763.227 euro. Il Pd, che se l’è cavata meglio, ha preso 6.401.481 euro, mentre la Lega 1.411.007. Forza Italia appena 615.761 euro. Neanche i bilanci se la passano bene. Secondo Repubblica, i conti del 2016 delle sei principali formazioni parlamentari hanno un passivo di 13 milioni (e negli ultimi sette anni il buco è arrivato a 200 milioni). Stavolta non si possono neanche staccare assegni, come faceva Berlusconi un tempo. Secondo un decreto del 2013, poi convertito in legge nel 2014, le persone fisiche non possono effettuare erogazioni liberali in denaro o comunque corrispondere contributi in beni o servizi, sotto qualsiasi forma e in qualsiasi modo erogati, anche per interposta persona o per il tramite di società controllate, fatta eccezione per i lasciti mortis causa, in favore di un singolo partito politico per un valore superiore ai 100 mila euro annui. La norma, fatta evidentemente contro il Cav., ha però una vulnerabilità importante: il tetto non vale per i soggetti stranieri, sicché un magnate russo per ipotesi potrebbe anche investire il suo denaro per finanziare partiti italiani. Alcuni parlamentari – come Mazzoni – hanno presentato emendamenti per cancellare il tetto, ma sono stati bocciati. Sergio Boccadutri, al tempo in Sel e oggi nel Pd, aveva presentato invece un emendamento per evitare intromissioni “estere” (bocciato anche quello).

 

"I nuovi parlamentari saranno eletti in libertà provvisoria". "Tra voti di scambio e traffico di influenze, le procure si sbizzarriranno

Il gentismo imperversa, s’abbatte sulla campagna elettorale. Eppure, il dubbio viene, per evitare che la politica sia solo una roba da ricchi, non sarebbe meglio ripristinare il finanziamento pubblico? Perfino Raffaele Cantone, capo dell’Anac, s’è detto favorevole, parlando con Il Foglio. “Personalmente non sono contrario a un ripristino di un finanziamento pubblico intelligente, in cui ci sia la rendicontazione precisa di tutto. E quando dico di tutto non intendo solo in entrata ma anche in uscita: nella vicenda Lusi, per esempio, i soldi sono stati ricevuti regolarmente, ma poi sono stati spesi senza che nessuno controllasse”. Sarebbe preferibile, ha detto Cantone, “un finanziamento pubblico ben regolato che un finanziamento pubblico surrettizio e non ben regolato come quello che avviene a volte attraverso le fondazioni. E sarebbe preferibile che la politica una volta per tutte fosse disposta a prendere un’iniziativa che l’Italia aspetta da anni: una buona legge sui partiti che stabilisca chiari e semplici criteri di accesso, e che impedisca di fare politica senza essere trasparenti fino in fondo”.

 

La legge dispone i limiti di spesa per i candidati al parlamento: 52 mila euro più una quota a seconda degli abitanti della regione

Il caos non è solo il prodotto dei tagli al finanziamento pubblico e dal sentimento antipolitico, così stratificato che pure chiedere soldi ai privati desterà pure qualche sospetto. C’è anche un problema di legge elettorale, con il cognome del candidato che va vergato sulla scheda elettorale. Alla Camera ci sono i capilista bloccati (gli altri vengono eletti con le preferenze), mentre al Senato c’è la preferenza unica e i collegi sono su base regionale. Quindi significa che in Lombardia un aspirante senatore deve coprire un territorio da quasi dieci milioni di persone. Nel 2013, quando c’era il Porcellum e i parlamentari eletti furono, di fatto, nominati, i partiti chiesero un contributo a chi era in posizione sicura. Il Pd, ricordano alcuni di loro, chiese ventimila euro (ma altri versarono anche di più), il Pdl, certificano altri, venticinquemila. Berlusconi fece inserire nel contratto con i suoi anche l’impegno a restituire parte dell’indennità, in pieno spirito grillista (“Non lo fece nessuno”, dice un senatore). “Stavolta immagino che il tesoriere del Pd – spiega un dirigente del partito di Matteo Renzi – chiederà un contributo ai capilista…”. Il copione è insomma scritto: la prossima campagna elettorale sarà un casino. Gli unici tranquilli sembrano essere i Cinque stelle, almeno a parole. Nessun rischio di far lievitare i costi della campagna elettorale, dice il deputato Alfonso Bonafede. “Per noi no”, non ci sarà questo problema, assicura. Staremo a vedere. Ma tra preferenze e inasprimenti giudiziari, i rischi sono dappertutto, come già avvertiva Angelo Panebianco in un editoriale sul Corriere del 3 agosto 2014.

 

“Ma davvero – scriveva il politologo –, reintroducendo le preferenze, volete fare un così grande piacere a tutti quelli che godono quando vedono politici inquisiti o, meglio ancora (dal loro punto di vista), in galera? Il voto di scambio, all’inizio però con forti limitazioni (riguardava allora solo il caso dei rapporti mafia-politica), è diventato reato in Italia nei primi anni Novanta. Ma la legge Severino sulla corruzione, approvata ai tempi del governo Monti, ne ha ora allargato notevolmente l’ambito di applicazione. Chiunque parli oggi di preferenze farebbe bene a leggere con attenzione quella legge. Si noti per giunta che la criminalizzazione (in senso letterale: la penalizzazione, la trasformazione in reato penale) del voto di scambio, è avvenuta in un paese che, per ragioni culturali, non è mai stato capace di chiarire a se stesso quale sia il confine fra il lecito e l’illecito, fra la normale, normalissima (svolta da tutti i Parlamenti democratici) rappresentanza degli interessi, e la corruzione parlamentare”. La prova di questa incapacità culturale, aggiunse Panebianco, “è data dal fatto che l’Italia non è mai stata in grado di regolamentare il lavoro delle lobby . E’ in un Paese siffatto che volete reintrodurre le preferenze? In tempi, oltre a tutto, di grande attivismo giudiziario? Soprattutto i partiti con vocazione governativa, i partiti che hanno ottime probabilità di andare al governo, dovrebbero tenersene alla larga. Quanto tempo dopo le elezioni comincerebbero a fioccare gli avvisi di garanzia per i politici entrati in Parlamento con un bel gruzzolo di preferenze? I leader nazionali, certamente, prenderanno tante preferenze ‘spontanee’ e nessuno li accuserà di voto di scambio. Così come accadrà a qualche esponente di movimenti di protesta. Ma che dire delle seconde, terze e quarte file dei partiti di governo, di quei tanti signor Nessuno che risulteranno molto bravi nell’organizzazione del consenso?”.

 

Bianconi: "Io, se mi candidassi al Senato, calcolerei di spendere 3-400 mila euro". Il collegio, infatti, è regionale

Nel 2013, il 31 per cento dei parlamentari non ha presentato i documenti, nonostante gli obblighi di legge. E tra chi li ha presentati, il 41 per cento disse di non aver speso un centesimo per far campagna elettorale. “C’era il Porcellum – spiega un ex parlamentare di Forza Italia – a che serviva far campagna elettorale per i singoli? L’importante era che i voti andassero alla lista e quindi l’investimento doveva essere tutto sul partito”. Stavolta però è diverso e si misurerà la capacità dei candidati a raccogliere contributi. Sposetti già nel 2013, candidato al Senato, da solo, raccolse 220 mila euro, mentre Enrico Letta, candidato alla Camera, ne raccolse 119.775,15 euro (ne spese 47.374,25, con un attivo di 72,400,90). Letta versò al Pd delle Marche trentamila euro come contributo alla campagna elettorale generalista. In altri casi furono i candidati a ricevere soldi dal partito, come il senatore Giorgio Tonini, che ricevette dal Pd del Trentino 32.900 euro. “Ma sono casi eccezionali”, dice un dirigente del Pd che allora seguì da vicino la campagna elettorale bersaniana. Così come eccezionale sarà non spendere nulla per farsi eleggere. Nel 2013, 266 degli eletti alla Camera e al Senato hanno dichiarato di non aver avuto spese né contributi. “Al prossimo giro non accadrà”, dice Bianconi. “Io, per esempio, se mi candidassi al Senato in Toscana calcolerei di spendere 3-400 mila euro. Ma nel Mezzogiorno invece, oddio, non mi ci faccia pensare…”. Potrebbe sembrare un’enormità, ma il collegio in questo caso è quello della Regione Toscana. Tutta, non qualche provincia. “Mettiamo caso – dice Bianconi – di fare una cena ogni 10 comuni, quindi in 30 comuni, mettendo a tavola 1.000-1.500 persone. Poi serve l’intrattenitore, il cantante, il materiale per pubblicizzarle…”. Fare politica costa, avvertite i Cinque Stelle. “Poi certo, uno può anche spendere 5 mila euro, solo che poi non passa. Non basta essere noti. La notorietà ti dà potenzialmente la possibilità di prendere la preferenza, ma se non la chiedi nessuno te la dà. Basti ricordare i casi di gente famosissima che ha preso 100 preferenze. Con le preferenze, ogni singolo candidato è un partito a sé. Non ci sono ordini di scuderia, non ci possono essere”.

 

"Nessuno sa come andranno le elezioni ma tutti sanno che i costi della campagna renderanno impossibile il ritorno al voto

Il discorso di Bianconi vale per la Toscana. Ma altrove? Prendiamo la Lombardia. Un aspirante senatore deve battersela tutta se vuole raccogliere le preferenze. Certo, un volto noto è avvantaggiato. “Per questo ci vogliono persone iperconosciute”, dice il deputato renziano David Ermini, secondo cui il Pd candiderà tutti i suoi volti più noti (e dell’età giusta) proprio per Palazzo Madama. A partire dal segretario Matteo Renzi. “Guardi – dice Ermini – ai tempi della Prima Repubblica, con le preferenze, ha sempre funzionato così. Con il proporzionale si torna alle correnti. Vince chi ha una struttura organizzata”. Serve un fisico bestiale alle prossime Politiche. E dopo una fatica così, chi mai vorrebbe tornare a elezioni anticipate? Alla fine questo sistema si potrebbe rivelare un modo per far durare il più possibile la legislatura. “Esattamente, si confida molto su questo”, conferma Bianconi. La situazione, già caotica di suo, mica è finita qui. Ma come, ancora? Il finanziamento pubblico non esiste più, i collegi sono sterminati, ci sono le preferenze… Che altro? Ci sono, naturalmente, dei limiti di spesa per i singoli candidati. Secondo l’articolo 7 della legge 515/993, “le spese per la campagna elettorale di ciascun candidato non possono superare l’importo massimo derivante dalla somma della cifra fissa di euro 52 mila per ogni circoscrizione o collegio elettorale e della cifra ulteriore pari al prodotto di euro 0,01 per ogni cittadino residente nelle circoscrizioni o collegi elettorali nei quali il candidato si presenta”. Dunque il solito aspirante senatore in Lombardia potrebbe spendere 152 mila euro, in Sicilia circa centomila euro, in Campania circa 110 mila, in Toscana meno di 90 mila euro, e via calcolando. I candidati si dovranno ingegnare. E come? Con “le partite di giro. Le iniziative, le cene, le sale, il personale, tutto ciò che non è materiale stampato con il mio nome può circolare fuori da quel bilancio”, spiega un parlamentare. Ma dobbiamo davvero arrivare ai trucchi e alle furbizie, per quanto legali? Non sarebbe meglio rivedere questi tetti di spesa? Il punto di fondo è uno: la politica e la democrazia hanno un costo ed è giusto sostenerlo. Lo scorso marzo Il Foglio sul tema ha intervistato Matthew Flinders, politologo dell’Università di Sheffield, direttore del Sir Bernard Crick Centre for the Public Understanding of Politics e autore del saggio “Defending Politics” (pubblicato in Italia dal Mulino con il titolo “In difesa della politica. Perché credere nella democrazia oggi”). “La democrazia – ha detto Flinders – ha un prezzo, ma ci possono anche essere degli abusi. E’ in corso un dibattito sullo stipendio appropriato dei politici e sulla definizione delle spese ‘ragionevoli’. Tuttavia, è una sorta di cortina fumogena. Studi dimostrano che la maggior parte delle persone pensa che un parlamentare dovrebbe ricevere uno stipendio da dirigente pubblico, al pari di quello di un medico ospedaliero o di un dirigente scolastico o di un professore universitario. Le persone sono anche molto felici di sostenere i politici per i costi di viaggio, uffici, personale e in alcuni casi per la necessità di un alloggio per metà settimana. Le persone non sono stupide; c’è un range di stipendi ampiamente accettati, di spese che possono essere identificate, i problemi si verificano solo quando la politica sviluppa un sistema basato sul malcostume e su pratiche non trasparenti. Detto questo, penso che la maggior parte dei politici non lo faccia per i soldi e molti effettivamente devono lottare per trovare un posto di lavoro una volta che lasciano la politica”. Il problema, “nell’essere troppo severi su stipendi e spese, è che si rischia di creare una professione che solo i ricchi e coloro che hanno un reddito privato possono realisticamente pensare di intraprendere. Quindi la democrazia deve avere un prezzo, ma non è così costosa come qualcuno potrebbe pensare”. L’alternativa è una: il trionfo del Partito Pauperista.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.