Massimo D'Alema (foto LaPresse)

D'Alema era un Renzi

Franco Debenedetti

Il problema non sono i leader, ma il bagaglio (culturale, politico ed economico) del popolo della sinistra

E’ un vero peccato che su YouTube il video del discorso di Massimo D’Alema al 2° Congresso del Pds del febbraio 1997 al Palaeur di Roma risulti “bloccato dall’autore per motivi di copyright”. Peccato perché ricordo l’effetto che mi fece, diciamo pure l’entusiasmo che provai: e mi sarebbe piaciuto risentirlo dopo questi vent’anni. Mi sarebbe piaciuto paragonare le emozioni di allora con quelle provate a qualche Leopolda, e verificare se è vero quello che sovente mi vien di pensare: che il D’Alema di allora era il Renzi di adesso. Il D’Alema di allora era quello che, in vivace contrasto con Cofferati, riteneva “la mobilità e la flessibilità un dato della realtà” che richiede di “rinnovare profondamente gli strumenti della negoziazione e della contrattazione sociale” per costruire “nuove e più flessibili reti di rappresentanza e di tutela”. Era quello che, sfidando le bandiere pacifiste, fece partecipare l’Italia alla guerra del Kosovo. Era quello che, in contrasto con autorevoli opinioni contrarie, volle che il passaggio di proprietà di Telecom, successivo alla privatizzazione di Prodi, avvenisse senza che il Tesoro esercitasse i suoi diritti di voto e invece lasciando che operassero i meccanismi di mercato che il paese si era appena dato. Era quello della Bicamerale e della aspettativa nostra (e presunzione loro) che potesse sciogliere i nodi istituzionali che ci bloccano. Era quello che, tre anni prima, mi aveva “prestato” i tre parlamentari che ci mancavano per costituire in Senato il gruppo parlamentare di Sinistra Democratica. Devo quindi a lui (ma, a essere onesti, assai di più a Prodi) se, un paio d’anni dopo, con “Sappia la destra” potevo sfidare gli avversari politici sul terreno di quello che noi avevamo fatto (va beh, magari solo detto).

    

Storia cancellata

Quantum mutatus. Chi aveva fatto approvare i pacchetti Treu oggi esige dai suoi fedeli il giuramento di smontare il Jobs Act e reintrodurre l’art. 18; chi aveva voluto presiedere la Bicamerale oggi considera aver votato Sì al referendum renziano una macchia da emendare. E’ forse un fatto generazionale, quello per cui da giovani si è rivoluzionari e da anziani si diventa conservatori? Banale l’osservazione e anche poco pertinente: Renzi avrà fatto passare l’abolizione dell’art.18, ma sui voucher non ha avuto il coraggio di sfidare il sindacato in una partita neppure rischiosa. Avrà eliminato la governance autoreferenziale delle banche popolari, ma non il riflesso statalista del ricorso alle aziende di stato – Cdp o Enel – quando ci sono problemi, si chiamino Ilva o Mps, o presunti problemi come la banda larga. E anche il suo europeismo brilla in confronto a grillini e salvinisti, ma è un europeismo di maniera, lontanissimo dall’idea, tipica ad esempio di un Andreatta, che stare aggrappati all’Europa sia per l’Italia l’unica via per superare i suoi vizi atavici.

   

Certo, conterà pure il passare degli anni, il salto generazionale, le ripicche personali. Conterà quel che nel frattempo è successo, la crisi finanziaria, il dramma dei migranti, il riflusso della globalizzazione. Ma di fondo quello che conta è la politica, l’offerta e la domanda politica. Al leader politico piace presentarsi (e quanto piace, a Renzi e a D’Alema!) come colui che sa convincere e trascinare gli elettori sulle proprie posizioni. Ma in realtà leader è anche l’ “imprenditore” politico, metafora imperfetta che si riferisce all’individuazione di un “mercato” politico di idee e umori dell’elettorato, ovvero di consumatori per il prodotto (cioè, il partito) che vuole loro vendere. Il D’Alema di oggi e quello di 20 anni fa, il Renzi delle primarie e quello dei mille giorni cercano solo di intercettare segmenti diversi dell’elettorato della sinistra. Perché sanno che questo elettorato statalista di fondo è capace di guizzi liberalizzatori, è percorso da aspirazioni rivoluzionarie e attratto da ricadute conservatrici. Non sono bastate le scissioni, Rifondazione prima, adesso Bersani e D’Alema (e potrebbe non essere finita), per riuscire a fare chiarezza, da una parte un normale programma socialdemocratico, dall’altra la vecchia sinistra con la sua difficoltà “di fare il lutto della sua fine storica” come scrive Massimo Recalcati.

  

Il problema non è l’identità dei leader, ma quella degli elettori che si considerano “di sinistra”. In tutti i paesi rimane una sinistra estrema, che magari pensa anche di nazionalizzare le miniere di carbone; trova leader in cui riconoscersi, i Mélenchon, i Corbyn, i Lafontaine. Questi, nel gioco della politica e delle leggi elettorali, possono anche assumere un ruolo di pivot. Ma il confine con le sinistre estreme i partiti socialdemocratici di solito lo tengono ben guardato: sanno che se succedono sconfinamenti, come di recente in Inghilterra, le conseguenze per il partito possono essere disastrose. Sono però storie diverse e la nostra è diversa. Con il che si finisce per ritornare alla svolta, alla Bolognina, e a che cosa gli uomini e le donne di sinistra si sono portati nel sacco per la lunga traversata del deserto.

   

Questo è il problema, a porvi rimedio deve essere indirizzata l’azione politica. I leader sono fungibili, e non per ragioni biologiche. Il D’Alema di ieri differisce da quello di oggi perché è diverso il settore di mercato politico che pensa di poter catturare; e probabilmente potrebbe essere così (e già se ne intravvedono i segnali) anche per Renzi. Il problema non sono i leader: è il bagaglio, culturale, politico, economico, del popolo della sinistra. Ragion per cui, parafrasando l'“innamorarsi è da cameriere” dell’Avvocato, dovremmo ripeterci che entusiasmarsi è da sempliciotti.

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