Il ministro Marco Minniti (foto LaPresse)

Il Minniti unico della nazione

Marianna Rizzini

Anatomia dell’uomo del Viminale e dell’emergenza migranti che si ispira a Javier Cercas

Il libro è “Anatomia di un istante” di Javier Cercas. La scena è quella del tentato golpe in Spagna, 23 febbraio 1981, quando, all’irrompere del colonnello Antonio Tejero Molina (armato) nelle Cortes di Madrid, tutti i parlamentari cercano riparo, ma tre uomini restano immobili al loro posto: sono il primo ministro Adolfo Suárez, il segretario del partito comunista Santiago Carillo e il tenente generale Gutiérrez Mellado. Ed è a questa scena che il ministro dell’Interno Marco Minniti ha pensato a volte in questi anni, dice un amico, forse per curiosità umana (come hanno fatto a restare fermi?) forse per curiosità politica (hanno calcolato le conseguenze del gesto?) forse per gusto letterario (a Minniti piace lo stile di Cercas). Ma chissà se ci ha ripensato anche due giorni fa, Minniti, a quella scena di quasi inspiegabile autocontrollo, in un contesto molto meno drammatico ma certo ansiogeno, e cioè al vertice informale dei ministri dell’Interno Ue di Tallinn, dove gli altri paesi europei hanno detto “no” all’Italia sull’apertura dei propri porti ai migranti, pur nel quadro di un “sì” per gli interventi in Libia e il codice di comportamento delle ong. E forse l’anatomia dell’istante, nel caso di Tallinn, parte dalla fine: fine del discorso, con Minniti che, parlando a braccio, evoca il momento in cui l’Italia, per restare al proprio posto, vista l’emergenza migranti, potrebbe trovarsi a dover decidere da sola (“… Non lasciate l’Italia da sola, altrimenti saremmo costretti ad azioni unilaterali… Io non voglio, non voglio, ma come ministro dell’Interno non posso escluderlo…”).

 

Al vertice dei ministri dell’Interno Ue di Tallinn ha ottenuto un “sì”
sulla Libia e le ong
e un “no” sui porti

Ma l’istante è anche prima e dopo. Prima: quando Minniti, alla Camera, qualche giorno fa, ha definito “inaccettabile la sproporzione tra quello che si è investito nella rotta balcanica e quello che si sta investendo oggi nel Mediterraneo centrale”, e ha annunciato una riunione a Tripoli con i sindaci della Libia per “discutere con loro di come liberarsi dal giogo dei trafficanti”. Dopo: quando Minniti si troverà di nuovo a parlare della questione porti (a Varsavia, il 12 luglio, in sede Frontex).

E nell’istante – istante di emersione dall’ombra in cui Minniti è rimasto per anni, da sottosegretario con delega ai Servizi segreti, ruolo in cui, come ha detto una volta, il maggior successo è che nessuno sappia che cosa hai fatto – ci sono anche le cose che il ministro dice quando parla della forza (eventualmente dispiegata, ma anche “spiegata” – parole sue, nell’intervista a Salvatore Merlo su questo giornale) e quando parla di democrazia: “Sui temi dell’immigrazione è in gioco ‘non la perdita di consenso di breve periodo, ma la tenuta del tessuto connettivo del nostro paese, un pezzo del futuro della nostra democrazia. Se questa è la sfida che abbiamo di fronte, questo Parlamento ha più ragioni per unirsi che per dividersi”.

 

Voleva fare il pilota,
ma si è iscritto
a Filosofia.
È per la legge,
l’ordine e la sicurezza,
e per lui la sicurezza
è una cosa di sinistra

E insomma in questi giorni il silente Minniti, calabrese di nascita ma, come dice chi lo conosce, “sabaudo di temperamento”, ha dovuto parlare da ministro dell’Interno che vive l’Interno anche su scala mediterranea ed europea. E c’è infatti chi, tra gli osservatori di Palazzo, un po’ scherzando e un po’ no, dice che Minniti ha “sostituito Angelino Alfano al Viminale ma anche un po’ affiancato Angelino Alfano alla Farnesina” – affermazione, questa, in cui, più che sminuire la visibilità del titolare degli Esteri, si vuole sottolineare la propensione ultra-nazionale del titolare dell’Interno, uno che, dice un osservatore, “fa il ministro dell’Interno in senso mediterraneo, e come se la Ue davvero funzionasse”. E il titolare dell’Interno, intanto, ha una storia di sinistra (nel Pci-Pds-Ds) e un presente di centro-sinistra (nel Pd), ma con idee sulla sicurezza giudicate troppo di destra, per esempio, dal quotidiano cattolico Avvenire. D’altronde Minniti, già dalemiano (è stato uno dei cosiddetti “Lothar” di Massimo D’Alema quando D’Alema era a Palazzo Chigi) e già veltroniano, poi renziano a modo suo, non è facilmente classificabile (al momento). C’è chi lo considera un “militare mascherato”, alludendo alla fermezza e al piglio ma anche alla famiglia di provenienza, in cui i militari non mancano; chi vede in lui una vena “da dirigente politico anni Cinquanta, di quelli che i problemi li inserivano nel contesto”; chi riscontra in Minniti caratteristiche da “comunista-comunista, tendenza a tratti staliniana”; chi lo definiva “ministro in segreto” quando ancora non era ministro (Marco Damilano sull’Espresso, due anni fa); chi lo immaginava “profondamente odiatore dei teatrini” e chi lo descriveva “un po’ Innominato un po’ Fra’ Cristoforo” (Francesco Merlo su Tempi, in una “analisi tricologico-letteraria” del ministro dell’Interno – che è calvo, ma capace di dire che da giovane aveva “una massa enorme di capelli biondi e ricci”). Sempre su Tempi, il “Cattivissimo me” Minniti, intervistato da Giuseppe Alberto Falci, ha mostrato un lato filologico-filosofico da ex studente di Filosofia medievale appassionato di Filologia (“la parola serve per spiegare quello che hai già fatto, non quello che vuoi fare”, ha detto, ricordando comunque di essere stato spesso redarguito dal professore di latino proprio per il suo restare in bilico tra due materie e due impostazioni mentali: “Vede Minniti, questa è una traduzione, tu devi fare il filologo, non il filosofo”).

 

Il passato “puro Pci”,
la fase dalemiana, veltroniana, renziana (ma Minniti non vuole essere incasellato
in una “corrente”).

E quando, due mesi fa, Minniti ha partecipato a un forum a Repubblica, il pallino filologico si è arricchito di un elemento psicologico. Che cos’è la paura? Che cosa vuol dire combatterla? questo era infatti il tema che Minniti ha dovuto affrontare, anche per via dell’articolo scritto da Roberto Saviano sul quotidiano di largo Fochetti, articolo in cui l’autore di “Gomorra”, neanche tanto tra le righe, aveva criticato il piano Minniti sulla sicurezza (e anche sui Cie e sulle espulsioni) come una concessione alla pancia del paese (e alla destra). E Minniti ha tirato fuori un episodio del 1999, e cioè di quando, da “giovane sottosegretario alla presidenza del Consiglio” (governo D’Alema), si era recato a Bologna per un’iniziativa politica sulla sicurezza ed era arrivato “armato di statistiche non molto diverse da quelle che abbiamo oggi e che indicavano i delitti cosiddetti predatori in calo”. E aveva concluso spiegando che non vedeva “dove fosse il problema”: “… Un vecchio compagno si alzò dalla platea e mi disse: ‘Se vieni qui a raccontarci le statistiche, non hai capito niente di noi, di Bologna e del paese’. Per inciso, a Bologna vinse Guazzaloca e io quella lezione non l’ho dimenticata. E suona così. Io non posso combattere la paura biasimando chi ha paura. Io devo aiutarlo a liberarsi dalla paura. La sicurezza è un sentire. E la cosa più impegnativa, dunque, è il sentirsi, che è qualcosa di vicino al sentimento. Dove si ragiona con le statistiche non c’è sentimento. Io sto con chi prende l’autobus tutte le mattine. Io devo riuscire a sentire quello che prova lui. Non chi ha tre auto di scorta come me. La sicurezza è un problema che colpisce i deboli. Perché i ricchi la sicurezza se la comprano. È di destra stare con i più deboli?… Io, da uomo di sinistra quale sono e ritengo di essere, ho il problema di includere. Fosse anche un solo cittadino. Ho l’obbligo di non abbandonarlo alla paura, che è il sentimento che distrugge prima una democrazia e poi le ragioni dello stare insieme”. E però le parole di Minniti non sono piaciute al filosofo ed ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari che, intervistato sempre da Repubblica, le definiva “fesserie”: “Ma che cosa vuol dire?”, diceva Cacciari, “il tema è: lo stato deve garantire la sicurezza ai cittadini. Punto. Dire che la sicurezza è di sinistra è un lisciare il pelo alla gente, e anche male, solo per raccattare due voti. È solo campagna elettorale… inseguimento pre-elettorale del peggior leghismo… mi sono stufato di sentire certe cose… Minniti prima era comunista, poi dalemiano, adesso renziano. Ho detto tutto...”.

 

Di sicuro Minniti non è franceschiniano nel senso del metodo-Franceschini, ministro ma anche capocorrente, e non è volto ricorrente dei talk-show post scissione nel Pd né penna ricorrente di Twitter e Facebook (non li ha) né frontman nel senso istrionico del termine. Il suo volto sì, è rimasto dalemiano in senso fisiognomico: muscoli fermi e sorriso controllato. Per il resto, quando nel Pd si è profilata la diaspora degli Articolo 1-Mdp, il ministro dell’Interno ha sperato prima nella “profondità” della riflessione e poi nella ragionevolezza dell’ultima ora, specie rispetto all’idea di un Pd nato come “unione del riformismo cattolico e di sinistra” (la sua idea era: proprio per il senso di quell’unione dovete riflettere bene prima di buttare tutto).

 

Da quel giorno del 1999 in cui la parola “sicurezza” gli era apparsa di sinistra, molta strada silenziosamente governativa ha fatto Minniti, ex aspirante pilota iscrittosi a Filosofia per sussulto di ribellione al padre troppo severo, e poi dirigente di partito che, a poche settimane dal giuramento come sottosegretario, nel 1998 (governo D’Alema), si era trovato ad affrontare il caso del capo politico curdo Abdullah Ocalan, e poi era stato investito (con tutto il governo) dal fuoco amico della gauche per via delle operazioni militari in Kosovo. E dunque la strada silenziosamente governativa di Minniti è costellata di tappe che disegnano un percorso preciso tra Interno e Difesa, anche detti (nella Russia comunista) “ministeri della forza”: da sottosegretario alla presidenza del Consiglio a sottosegretario alla Difesa (governo Amato) a viceministro dell’Interno (governo Prodi II) a sottosegretario con delega ai servizi segreti (governo Renzi) a ministro dell’Interno con Paolo Gentiloni. Intanto, nel Pd, è stato responsbaile Sicurezza (segreteria Veltroni), presidente nazionale del Forum sicurezza (segreteria Franceschini), responsabile per la verifica dell’attuazione del programma del governo Monti (segreteria Bersani). Quando viene intervistato, Minniti si racconta come uomo al di sopra delle correnti, ma mai al di sopra del partito (eredità Pci): negli anni Ottanta, giovanissimo, è stato responsabile pci di zona nella Piana di Gioia Tauro, incarico prestigioso nel senso della prova del fuoco e d’iniziazione: se resistevi potevi aspirare a una carriera a Botteghe oscure. E il futuro ministro – che poi dividerà anni di militanza con Claudio Velardi, altro “Lothar” dalemiano ma allora commissario di partito a Reggio Calabria – nella Piana di Gioia Tauro resiste, cominciando a collezionare aeroplanini, in onore della vecchia passione per il volo militare. Vacilla a un certo punto, quando la ’ndrangheta uccide l’amico Giuseppe Valarioti, politico e insegnante, assassinato nel giugno del 1980 in un agguato, a colpi di lupara, al termine di una cena post-elettorale, dopo la vittoria a Rosarno.

 

Le polemiche con Roberto Saviano
e Massimo Cacciari,
e la lezione
della Bologna ’99
sul “come governare
la paura”

Un altro istante, e un altro dubbio: può la politica davvero fare qualcosa contro la criminalità organizzata e a favore di chi vive in luoghi in cui la criminalità organizzata prospera? Anche da quel dubbio è nata, dice un amico, “l’ossessione del ministro per la sicurezza”.

Poi c’è la storia dell’oggi, con il Minniti che dice “non ululiamo alla luna, il limite è raggiunto, l’Europa faccia sul serio”, guardato con sospetto dalla sinistra-sinistra (extra Pd) ma pure dalla destra-destra (da Fratelli d’Italia Giorgia Meloni dice: “Lei mi fa rimpiangere il ministro Alfano”). E, nella storia dell’oggi, prendono posto altre parole filologicamente studiate, e pronunciate da Minniti all’inizio di maggio, sempre nel corso del forum a Repubblica: “Il lavoro che ho cominciato al Viminale quattro mesi fa può piacere o meno. Ma è figlio di un metodo, di un disegno e di una certezza. Che sulle questioni della nostra sicurezza, si chiamino emergenza migranti, terrorismo, reati predatori, incolumità e decoro urbano, legittima difesa, non si giocano le prossime elezioni politiche. Ma il futuro e la qualità della nostra democrazia”.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.