L'emergenza immigrazione in due mosse

Claudio Cerasa

Trasformare i confini della Libia nei nostri confini, e non viceversa. Mare Nostrum e Eunavfor, due belle incompiute. Bisogna intervenire, anche con la forza (e il sì dell’Onu)

Nel dibattito un tantinello ipocrita sull’emergenza migranti ci sono alcune verità importanti che spesso tendono a sfuggire dal radar di molti osservatori e che per questo meritano di essere messe in fila senza eccessivi carichi ideologici. La prima verità riguarda una gigantesca fake news che ci impedisce di mettere a fuoco i veri termini dell’emergenza relativa alla gestione delle politiche di immigrazione. Leggere il dossier migranti limitandosi a osservare i numeri degli arrivi è un ragionamento pigro che non ci consente di prendere di petto i veri termini del problema. I numeri ci dicono che tra il primo gennaio e il 30 giugno 2017 sono sbarcate in Italia 83.731 persone – 23 mila solo a giugno – con un incremento relativo agli sbarchi di circa il 18 per cento rispetto al 2016. In assoluto, per un paese di quasi 60 milioni di abitanti, i numeri non sono da emergenza e per capire cos’è l’emergenza (che c’è) bisogna fare uno sforzo in più e prendere altri due numeri: 200 mila e 97 mila. Il primo numero coincide con il numero massimo di migranti che i comuni hanno promesso di poter accogliere in Italia nel corso del 2017 e sommando gli arrivi di quest’anno con i migranti arrivati lo scorso anno i cui profili non sono stati ancora definiti quel numero verrà raggiunto non a dicembre ma ben prima della fine dell’estate. Il secondo numero coincide invece con il numero di migranti arrivati sulle coste europee e mettendo quel numero in relazione al numero di sbarchi registrati in Italia (83.731) si capisce bene che il problema è più legato alla percentuale di persone che arrivano in Italia che al numero totale di migranti che arrivano nel nostro paese.

 

 

Questa premessa è molto importante non tanto per voler minimizzare il tema quanto per capire che le percentuali che abbiamo evidenziato effettivamente ci dicono che la chiusura della rotta balcanica e i severi controlli messi in campo da molti paesi europei per limitare l’ingresso di migranti all’interno dei loro confini hanno posto l’Italia nella condizione di diventare oggettivamente una Libia europea. Per uscire fuori da questo status politicamente assurdo è giusto e doveroso lavorare (linea Minniti) affinché le ong che battono bandiera straniera portino nei loro paesi i migranti che salvano meritoriamente nel Mediterraneo. Così come è giusto lavorare con maggiore efficienza nell’ambito dell’accelerazione delle procedure di asilo, dell’apertura di nuovi hotspot e di nuovi centri di trattenimento per i rimpatri. Così come è giusto portare fino in fondo le linee politiche contenute nel “migration compact” i cui risultati sono però al momento ben al di sotto delle attese (con i paesi di origine, da dove partono i migranti, i risultati sono pessimi, con i paesi di transito, invece, qualcosa è successo e il tasso di rimpatrio verso diversi paesi africani è aumentato in modo significativo, circa il 20 per cento in più, con dei picchi verso il Senegal, il Niger e la Nigeria, dove nei primi tre mesi del 2017 i rimpatri sono aumentati del 23 per cento rispetto al 2016). Tutto questo, come abbiamo detto, è giusto e doveroso. Ma se davvero la nostra classe dirigente e politica volesse spingere l’esecutivo a governare con più decisione l’emergenza migranti dovrebbe smetterla di raccontarsi frottole e lavorare affinché l’Italia faccia l’unica cosa che andrebbe fatta per evitare che il nostro paese si trasformi in una nuova Libia: trasformare i confini della Libia nei nostri confini, e non viceversa. Con questi interessi nazionali in gioco, l’ipotesi più dura – a oggi infattibile e che qui non suggeriamo – sarebbe promuovere una grande operazione militare per portare migliaia di soldati sulle coste libiche e provare a stabilizzare con più rapidità il paese e a governare l’immigrazione direttamente alla fonte. L’operazione militare in Libia c’è stata anche se indiretta e non in misura sufficiente ma se non si è messo tutto quello che sarebbe stato lecito mettere in campo per tutelare il nostro interesse nazionale è anche perché io nostro paese ha scelto per anni di promuovere una gestione della politica migratoria particolare caratterizzata da una priorità bizzarra: non tutelare i nostri confini (che sono poi i confini dell’Europa) ma paradossalmente incentivare le partenze. 

 

L’operazione Mare Nostrum, da questo punto di vista, ha avuto l’effetto evidente di salvare molte vite umane, ma allo stesso tempo ha incrementato le partenze dalle coste libiche e, come ha ricordato la scorsa settimana Alfredo Mantovano sul nostro giornale, “se il trafficante ha la certezza che la nave soccorritrice attende a 12 miglia marine dalla costa, adopererà i natanti più economici, e quindi più insicuri, riempiendoli fino all’inverosimile, pur di ottenere il massimo illecito profitto”. Sotto questa prospettiva, sostiene giustamente Mantovano, “il ruolo che svolgono le ong che raccolgono migranti davanti alle acque libiche è nient’altro che Mare Nostrum in gestione privatistica: senza alcun mandato istituzionale, surrogando il minor numero di imbarcazioni impiegate dagli stati europei operanti in quel braccio di mare”.

 

 

Demonizzare le ong è un’operazione sciocca e senza senso ma per essere onesti fino in fondo bisognerebbe dire che ciò che manca al nostro paese è una consapevolezza diffusa che per governare l’immigrazione, ed evitare di farsi governare da essa, bisogna accettare il fatto che l’Italia sia la frontiera dell’Europa; bisogna combattere affinché l’Europa non trasformi il nostro paese in un campo profughi dei migranti che gli altri paesi non vogliono accogliere; e bisogna infine rendersi conto che non ci sarà mai una gestione forte e responsabile dell’immigrazione se non si comincerà a fare quello che ricordava ieri Daniele Raineri sul nostro giornale: andare sulle coste libiche e gestire gli arrivi ed eventualmente i respingimenti da lì, con l’aiuto delle Nazioni Unite o dell’Unione europea, anche a costo di fermare nelle acque territoriali libiche le imbarcazioni degli scafisti. Per fare questo potrebbe non essere neppure necessario inviare delle truppe. Potrebbe essere sufficiente cambiare davvero approccio. Potrebbe essere sufficiente impegnarsi per allestire campi dove possano essere respinti i migranti prima che lascino le acque territoriali, rafforzare il pattugliamento nelle acque territoriali libiche, autorizzare operazioni e attacchi mirati contro gli scafisti che meritano di ricevere un trattamento non diverso da quello che riserveremmo ai terroristi. Potrebbe essere sufficiente fare questo e aggiungere poi un passaggio suggerito mesi fa dal senatore Nicola Latorre, presidente della commissione Difesa del Senato: portare fino in fondo l’operazione Eunavfor, complicato acronimo che definisce la Forza navale mediterranea dell’Unione europea.

 

 

L’Eunavfor nacque nel 2015, a seguito di una serie di naufragi che coinvolsero diverse imbarcazioni che trasportavano migranti e richiedenti asilo dalla Libia, e nacque con un’idea precisa: neutralizzare le rotte della tratta dei migranti nel Mediterraneo. L’operazione è composta di tre step. Due sono stati realizzati: la sorveglianza e la valutazione delle reti di contrabbando e traffico di esseri umani nel Mediterraneo e la ricerca di navi sospette. La fase che manca all’appello è la numero tre, quella che consente lo smaltimento delle navi e delle relative attrezzature e che permette di fermare trafficanti e contrabbandieri. Per superare il problema diplomatico che la Libia è uno stato sovrano occorrerebbe un doppio passaggio: promuovere un’iniziativa per convincere il governo libico a chiedere l’intervento e portare su questa linea anche la Russia e i membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Ecco. Per dimostrare che l’Italia ha capito che i confini non vanno solo genericamente aperti ma vanno governati ci sarebbero molti segnali che si potrebbero dare. E per evitare che il nostro paese sia trattato come se fosse la Libia dell’Europa prima ancora che concentrarsi sulle ong forse varrebbe la pena partire da qui.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.