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Un passaporto è per sempre

Il dibattito sullo ius soli scatena passioni incontenibili perfino in Parlamento. Dal problema demografico all’immigrazione incontrollata, un girotondo fogliante

Il rischio di impoverire

di Alfredo Mantovano

 

Nel dibattito sullo ius soli, dentro e fuori il Senato, restano senza cittadinanza i contenuti e il merito dei singoli articoli del disegno di legge – di essi, delle loro contraddizioni, dei danni che provocherebbero non parla nessuno –, mentre mantengono una posizione centrale considerazioni terze, poco inerenti alla materia. Fra queste la c.d. istanza etica: in virtù della quale accogliere quanti più immigrati possibile, e immaginare la cittadinanza per loro e per i loro figli – se nascono in Italia o se qui frequentano un corso scolastico – corrisponde a fornire un doveroso contributo contro la fame e il sottosviluppo, e a favorire l’integrazione. Esponenti significativi del mondo ecclesiale italiano sono interpellati dai media più importanti a sostegno di queste tesi: in assoluta coerenza con l’evocazione dell’indebita ingerenza per gli interventi loro o di loro confratelli quando riguardano eutanasia o unioni civili.

 

Mi muovo su questa lunghezza d’onda e ricordo che nella Caritas in Veritate (al n. 62) Benedetto XVI forniva in proposito tre indicazioni-chiave: anzitutto richiamando i “diritti delle persone e delle famiglie emigrate” (il migrante va trattato come una persona e non come una merce); poi evocando i diritti “delle società di approdo degli stessi emigrati”, che non coincidono con la sicurezza, ma includono l’identità e l’integrità nazionale; infine, i diritti delle società di partenza degli emigrati, perché non siano depauperate delle risorse necessarie per lo sviluppo. Chi sottolinea positivamente la presenza fra i migranti di ottimi ingegneri, di bravi informatici, di medici e di infermieri capaci – e spinge, sulla base dell’istanza etica, al loro radicamento da noi anche attraverso automatismi sul fronte della cittadinanza – non riflette a sufficienza sul costo per le zone di provenienza dell’impoverimento delle loro risorse umane. Il valente medico arrivato da uno stato del centro Africa non è indispensabile per i sistemi sanitari europei, lo è invece nel Ruanda o nel Ghana. Se è proprio necessario affrontare il dibattito sullo ius soli ignorando il contenuti del relativo disegno di legge, perché non ci si chiede come venire incontro in concreto a queste esigenze?

La cittadinanza come punizione

di Pietrangelo Buttafuoco

 

La porcheria di parole che veste le argomentazioni contrarie allo ius soli non è destra, anzi: proprio il punto di vista di quella categoria culturale – a cominciare da un’adesione ai valori della Tradizione – si radica nel principio universale il cui seme, nessuno se ne abbia a male, è Civis Romanus sum.

 

La formula che sollevava gli uomini dal servaggio tribale per assumere il privilegio della cittadinanza era il traguardo elargito da Roma – divina già nel sacrissimo confine – alle genti e ai popoli da qualunque parte del mondo conosciuto arrivassero in virtù dei codici di civiltà e del carisma imperiale fondato sulla pluralità delle patrie e non certo nell’angusto cortile nazionalista dei bottegai.

 

La stessa Cristianità, se non ci fosse stata Roma, non sarebbe riuscita a guadagnare l’universalità cattolica, sarebbe rimasta un’eresia mediorientale e non avrebbe mai avuto un potente genio di Grazia e Tradizione quale l’algerino Agostino di Ippona, cittadino romano.

 

Non era certo per vezzo se un reazionario come Piero Buscaroli – maestro della civiltà europea, figlio di Romagna – andava a dichiararsi, respingendo le onorificenze del capo dello stato, “cittadino coatto della Repubblica italiana”; nazionalista era Pietro Badoglio, e abbiamo detto tutto, mentre il fondatore dell’Universale, Berto Ricci – impegnato nella campagna d’Africa, caduto sul fronte libico nel 1941 – era patriota. E su tutto, oggi – a dispetto della porcheria di parole che intossica la maldestra cagnara – vale quel che Amleto De Silva ha detto: “Nei paesi civili la cittadinanza italiana te la danno per punizione”.

La deculturizzazione è in atto

di Camillo Langone

 

Lo ius soli è la vendetta di Metternich: centosettant’anni dopo l’Italia è davvero soltanto un’espressione geografica. Contro questa deriva non credo ci sia politicamente molto da fare: la cittadinanza generalizzata è solo una conseguenza dell’aver smesso di difendere le frontiere ed essersi lasciati invadere. Bisognava pensarci prima. Qualcuno davvero immaginava che i cosiddetti migranti finita la stagione se ne tornassero in Africa come le rondini? O che si potesse fare come nell’Atene di Pericle, dove dalla cosiddetta democrazia venivano tranquillamente esclusi gli schiavi e gli stranieri ossia l’80-90 per cento della popolazione? Dalla democrazia presente non si può escludere nessuno: o la si sospende (ma a mantenere l’ordine poi ci penserebbe la stessa polizia che a Torino si fa picchiare dai bevitori di spritz?) o ci si rassegna all’uno vale uno. Lo ius soli suona inevitabile come suonano inevitabili le sue conseguenze: nascita di partiti maomettani, accelerazione della deculturazione in atto, trasformazione in realtà delle distopie letterarie di Michel Houllebecq, eccetera. E’ il timbro dell’anagrafe sull’islamizzazione, visto che la maggioranza (assoluta o relativa, comunque cospicua) dei nuovi cittadini si chiamerà Mohamed o dintorni. Questa è la realtà ma siccome fuori dalla finestra sono trentacinque gradi e dentro la finestra, nonostante il condizionatore, sono trenta, mi concedo di sognare la fresca Europa di Visegrad, l’Ungheria, la Slovacchia, la Repubblica Ceca, soprattutto la Polonia dove le frontiere sono regolarmente presidiate e sono ancora tutti cattolici e tutti bianchi, come nella dolce Italia di quando ero bambino. Ho letto che la meglio gioventù polacca ha come motto “Fede, Onore, Patria”, che i vescovi locali ignorano la disastrosa Amoris laetitia e continuano a non dare la comunione a chi non se la merita, altro che cittadinanza, e che in questo momento a Danzica ci sono 17 gradi. Ma non conosco l’inglese, figuriamoci il polacco. Impossibilitato alla fuga sarò costretto a difendermi in loco: culturalmente, ormai.

Ius soli non vuol dire terrorismo

di Marcello Pera

(testo raccolto dalla redazione)

 

Ritengo che la legge sia presente, di fatto, nell’ordinamento italiano: certifica semplicemente l’italianità di coloro che sono già italiani. Certo, rafforzerei determinate condizioni, per esempio la padronanza della lingua italiana e l’educazione all’italianità, ai nostri valori. Negli Stati Uniti c’è lo ius soli, ma è prevista una cerimonia, un giuramento, insomma un’adesione ai valori del paese. In questo senso la scuola è fondamentale, perché è necessario che chi diventa italiano parli bene la lingua. Insegnare bene la lingua vuol dire anche insegnare cosa vuol dire far parte della nostra comunità, far capire che ci sono alcuni valori, come la parità tra uomo e donna. Solo così si evitano i ghetti. Mi pare anche che le obiezioni alla legge siano demagogiche, specialmente quelle legate alla sicurezza: opporsi allo ius soli per paura del terrorismo è come opporsi ai vaccini per un caso dubbio. Rifiuto questa assimilazione tra cittadinanza e terrorismo, perché è strumentale: sono due temi seri che non sono correlati. Il terrorista non ha bisogno della cittadinanza per venire qui o per commettere degli attentati, è un accostamento che non ha senso.

 

Rispetto ad altre proposte mi sembra che la legge sia piuttosto moderata, non è una rivoluzione. Piuttosto, il fatto che sia stata calendarizzata tra i due turni delle amministrative ha reso più facile strumentalizzarla a fini elettorali. Però dai miei ex compagni di Forza Italia mi sarei aspettato qualcosa di più: se questa posizione contraria è il prezzo da pagare per il listone unico del centrodestra, allora meglio non pagarlo. Dovremmo affrontare questo tema con più laicità nelle posizioni. Spero che questa legge venga approvata, anche perché è il Pd che sta pagando il prezzo più alto: sarebbe ingiusto per loro impedire che lo ius soli diventi legge. Magari dopo il secondo turno delle amministrative potranno emergere delle persone di buonsenso e portare a termine la discussione in modo intelligente. Alla fine, non dovrebbe essere così difficile trovare un accordo.

Demografia, questa sconosciuta

di Mario Sechi

 

L’Italia è specializzata in partenze con il piede sbagliato e arrivi in scivolata a tempo scaduto. Grande rumore, poi il nulla. Non sfugge a questa regola da biliardo bagnato nell’olio da carburatore anche il dibattito sul cosiddetto ius soli. Che idea mi sono fatto? Primo, manca la minima informazione sul tema: gli italiani – parlamentari compresi – non sanno niente di quella materia complessa, vitale e potentissima chiamata demografia. E’ la politica nella sua espressione totale: la massa umana che di volta in volta si muove, cambia, si trasferisce, si aggrega, si divide, diventa preda, predatore, passato, futuro. E’ quella splendida – e spesso anche inquietante – forma che Elias Canetti descrisse in “Massa e Potere”. Maneggiare la materia della demografia, capirla e provare a programmarne l’evoluzione è una questione di potere. E sapere. Secondo, l’Italia è già un paese dove un bambino su cinque nuovi nati è figlio di genitori stranieri, frequenta le scuole italiane, vive de facto – e non di diritto – come un italiano e, con il permesso dei ferventi sovranisti senza passaporto, spesso ha ottima educazione di base. Facciamo finta che siano stranieri? Bene, anche la terra è piatta e non siamo mai sbarcati sulla luna. Andiamo avanti. C’è un terzo punto ed è figlio (parola non casuale) del primo, la demografia: il problema italiano non è solo il saldo negativo (da profondo rosso) tra nuovi nati e morti, la fertilità delle donne, l’invecchiamento perfino dei migranti, etc. C’è di più, l’Italia si sta spopolando e il trend di lungo periodo sembra inesorabile. Secondo i dati Istat nel 2065 l’Italia avrà circa 53.7 milioni di abitanti in uno scenario mediano, ma questo numero potrebbe scendere a 46,1 milioni. Il futuro non è ipotecabile? Lo sappiamo, grazie, il problema è che già oggi siamo in questo scenario, le nascite non compensano i decessi, e l’unico dato positivo nel quadro migratorio è quello dei figli degli stranieri. Il report sul futuro demografico pubblicato dall’Istat qualche settimana fa parla una lingua diversa da quella della politica, lontano dalla demagogia chimica di Grillo, dalle parole d’Odino del Salvini, dal flip-flop-non-so-che-fare dei vari pre-post-berlusconiani, dal pietismo da Marie Addolorate delle Urne dei renziani del Pd. Che lingua parla? Quella della realtà, lo ius soli c’è già, l’Italia è un paese per vecchi e senza bambini.

Esiste ancora la nazione?

di Dino Cofrancesco

 

Il dibattito sullo ius soli scatena passioni incontenibili in Parlamento e sulla stampa. La denuncia della (oggettiva) “gazzarra ignobile” di grillini e leghisti ha dato la stura – vedi Massimo Giannini su Repubblica – ad anatemi contro la “sgangherata e arrabbiata Compagnia della Paura grillo-leghista” che agita, “nel modo più odioso”, “un’idea malata e manipolata di ‘patriottismo”. Riusciremo mai a essere un paese civile in cui le opinioni di chi la pensa in modo diverso non sono “la prova di una frattura politico-culturale insanabile” e della relativa necessità di eliminare le nostre mele marce? Non mi pronuncio sulle ragioni dei due schieramenti ma mi limito a esprimere qualche dubbio. Uno stato è soltanto una fitta e complessa rete di scambi e di prestazioni di beni e servizi (universalismo economico, A. Smith), integrata dal principio etico dell’eguale dignità di tutti i figli della terra (universalismo etico, Kant) e, oggi, dall’obbligo costituzionale della solidarietà che impone di assicurare a ogni cittadino un minimo di benessere – scuola, sanità, casa, lavoro etc. (universalismo del Welfare state)? Se così fosse, concedere i diritti politici di cittadinanza non solo a chi è nato in Italia ma anche a chi ci vive e lavora, paga le tasse e rispetta le leggi non porrebbe alcun problema. Sennonché, storicamente, la polis non è fatta solo di “individui” – coi loro diritti che non conoscono frontiere e bandiere – ma anche di “persone” legate a tradizioni, a valori, a identità culturali e linguistiche costitutive della loro più profonda identità. I diritti civili e quelli sociali (sempre più costosi), siamo tutti d’accordo, vanno concessi a tutti indistintamente ma se vi si associano i diritti politici, in base ad automatismi incontrollabili, quanti operano economicamente in un paese saranno chiamati a decidere quale anima esso debba avere, con quali debba valori identificarsi, quale retaggio spirituale del passato debba preservare. “No problem” se non esiste più la nazione.

Ce lo imporrà l’Onu

di Ettore Gotti Tedeschi

 

Lo ius soli non è altro che la conseguenza naturale e incontrastabile (è solo questione di tempo) del processo di immigrazione, voluto e pianificato da decenni, proposto con solerzia umanitaria, che prescinde dalle cause del problema e dalle soluzioni. Tutte le spiegazioni ufficiali delle migrazioni (conflitti, carestie, gap di popolazione) non sono le cause, sono i mezzi usati per imporre migrazioni previste a pianificate da decenni dall’Onu e organismi satelliti (Oms) al fine di imporre una forma di sincretismo religioso ed evitare nel globale la “pericolosa” applicazione dell’etica cattolica dogmatica e potenziale origine di conflitti. Si vadano a leggere in proposito le dichiarazioni del segretario dell’Onu Kofi Annan nel 2000, anticipate dalle dichiarazioni del direttore dell’Oms (1992) e seguite dalle ultime dichiarazioni del successivo segretario generale dell’Onu Ba Ki-moon nel 2106 ,dove impone accordi definitivi per migrazioni sicure, ordinate, e regolari per gli immigrati (Gian Antonio Stella, Corriere: 6,5 milioni di immigrati previsti in Italia). Ciò risulta ancor più evidente rilevando la non volontà europea alla ridistribuzione ed espulsione dei migranti, oppure al migration compact.

 

E’ evidente che lo ius soli ci verrà imposto (come ogni altra cosa ormai) nonostante i suoi evidenti rischi di dis-ordine economico, sociale, politico, xenofobo, religioso. E come dimostrato dove già applicato (a Parigi lunedì scorso, per esempio), rischi di sicurezza, perché limita i controlli e rende impossibili le espulsioni.

 

Ciò detto, quello che mi lascia più perplesso è la posizione dell’Autorità Morale, che sembra voler dimostrare di voler accogliere per dimostrare la sua apertura al pluralismo, manifestando che questa nuova chiesa è parte del mondo, e senza una sua dottrina sul mondo e per il mondo, accoglie senza voler convertire, senza evangelizzare, per rispetto umano… Sembrerebbe che la nuova chiesa auspichi le migrazioni (con solerzia umanitaria) per dimostrare che vuole riconciliarsi con il mondo ostile al cattolicesimo dimostrando il nuovo pluralismo teologico che deve contraddistinguerla.

Paghi le tasse qui? Puoi decidere

di Rocco Todero

 

All’interno del dibattito sullo ius soli non c’è spazio per una posizione differente da quelle che si stanno contendendo il campo e che vedono, da un lato, coloro che pensano sia giunto il tempo di compiere un atto di civiltà, e dall’altro, quanti ritengono che sia necessario preservare la cittadinanza da una contaminazione extra nazionale. Grazie all’esplosione di quella intuizione che portò i rivoluzionari francesi a redigere una dichiarazione universale dei diritti che valesse non solo per i cittadini ma per gli uomini tutti, gli ordinamenti giuridici delle liberal democrazie occidentali hanno riconosciuto progressivamente agli stranieri uno statuto giuridico pressoché identico a quello dei propri cittadini, imponendo un’interpretazione delle Costituzioni nazionali (è il caso dell’Italia, ad esempio) che consentisse di coprire sotto l’ombrello della tutela dei diritti fondamentali anche quanti cittadini non sono mai stati e mai lo saranno.

 

Per restare al caso italiano, per esempio, oggi gli stranieri regolarmente residenti nel nostro paese godono di tutti i diritti e le libertà fondamentali consacrate nella Costituzione. L’effettiva equiparazione fra cittadini e stranieri che soggiornano regolarmente in Italia è esclusa, invece, con riguardo ai diritti politici e all’elettorato attivo e passivo. Si tratta, tuttavia, di diritti soggettivi pubblici che dovrebbero essere ricondotti non già alla qualità di cittadino di una determinata comunità nazionale, quanto a quella di soggetti che, in quanto stabilmente residenti all’interno di una comunità locale e statale, hanno diritto di partecipare alla determinazione di quelle decisioni pubbliche di cui saranno inevitabilmente destinatari. Non può residuare alcun dubbio sul fatto che lo straniero stabilmente residente in Italia, e che qui paghi le tasse, abbia il sacrosanto diritto di partecipare alle decisioni politiche. Ma si tratta di diritti che si radicano nell’effettiva partecipazione “fisica” dello straniero alla vita di una comunità, e non già nel concetto obsoleto di cittadinanza che richiama, invece, appartenenze a dimensioni omogenee di natura etica, morale, culturale e storica di cui nessuno oggi avverte l’esigenza – nell’epoca di un mondo globalizzato multiculturale all’interno del quale diritti e libertà sono riconosciuti a prescindere dallo Stato, cui formalmente si appartiene. Naturalmente, l’argomentazione vale anche “a contrario”, per quei cittadini “formalmente” italiani che risiedono stabilmente all’estero e ai quali dovrebbe essere negato l’esercizio dei diritti politici in Italia in ragione del fatto che non subiscono gli effetti delle decisioni pubbliche. D’altro canto, sotto il profilo dei doveri individuali, fatta eccezione per il “sacro” dovere di difendere la Patria di cui all’art. 52 Cost. (sulla cui attualità ci sarebbe molto da discutere), anche gli stranieri appaiono su un piano di perfetta parità rispetto ai cittadini italiani. Appare chiaro, allora, come la questione non dovrebbe iscriversi all’interno di un dibattito sulla nozione di cittadinanza, ma dovrebbe riguardare innanzitutto (e fors’anche esclusivamente) il diritto degli stranieri stabilmente residenti in Italia a partecipare alle decisioni pubbliche. Decisioni che possono essere assunte solo da individui (cittadini italiani o stranieri) maturi e maggiorenni. Non a caso, infatti, il comma 2 dell’articolo 4 della legge n.91/1992 attribuisce automaticamente la cittadinanza italiana allo straniero nato in Italia che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età. I bambini, dunque, dovrebbero continuare a giocare in santa pace.

Un’analisi storica, fino alla green card

di Francesco Forte

 

La discussione sullo “jus soli” forse risulterà più chiara se si considerano i due grandi precedenti su cui si fonda: l’editto dell’imperatore romano Caracalla del 212 dopo Cristo, noto come Constitutio antoniniana, che estese la cittadinanza a tutti i nati nel territorio dell’Impero, e le norme del diritto feudale adottate dalla Corona britannica, per cui tutti i nati nel territorio appartenente al sovrano erano suoi sudditi, ed erano cittadini inglesi. Thomas Coke, in un saggio del 1605, sostenne che i nati in Scozia erano cittadini inglesi, in quanto la Scozia era sotto il dominio della corona britannica. Ma oramai non c’era più il feudalesimo, e valeva il diritto del Sovrano sul territorio originario e su quello conquistato. Così lo ius soli fu applicato alle colonie del nord America. Osserviamo ora le motivazioni di Caracalla e quelle del sovrano inglese e le conseguenze. L’editto antoniniano di Caracalla è molto simile alle leggi con cui si sistemano i “precari” dando loro il posto fisso, l’ultima delle quali è il Job Act, che ha una tematica di ampio respiro, ma nasce dall’idea di eliminare il precariato, molto diffuso con la legge Treu e poi la Biagi. Anche la sistemazione senza concorso dei maestri e professori supplenti come docenti di ruolo obbedisce al principio cui si ispirò Caracalla. Gli abitanti del territorio dell’Impero e quelli che vi sono nati fanno le stesse cose, pagano più o meno gli stessi tributi, facciamoli diventare tutti cittadini in modo da uniformare la popolazione. Caracalla, però, non aveva tenuto presente che accanto agli stanziali, che nell’impero ci erano nati e ci erano affezionati, vi erano anche gli estranei che non parlavano latino ma spesso erano nati nell’Impero. Sovente abitavano dall’altra parte del confine e anche se vivevano al di qua non provavano una gran simpatia per i romani. E così la difesa dei confini fu più difficile: accanto ai nemici esterni, ci furono quelli interni. La concessione della cittadinanza a tutti fu fra le cause della caduta dell’impero. Quanto al diritto feudale per cui il diritto di cittadinanza è, in realtà, un dovere di sudditanza, in esso c’è una importante radice biologica, genetica. Nel Medioevo scarseggiava la popolazione che lavorasse la terra. Il feudo era prospero se aveva tanti abitanti, in salute. I giovani sudditi diventavano, poi, anche soldati. Dal Seicento in poi gli europei conquistano l’America e lo ius soli, da legge di diritto feudale, si trasformò in legge di diritto coloniale: per popolare con i propri coloni il territorio tolto agli indios e valorizzare la terra occupata. Due giustificazioni si mescolano fra di loro: quella per cui il fatto naturale è considerato regola e quella per cui il servizio che si dà (o si presume dare) e quello che si riceve (o si presume si riceva) giustificano la regola. Le pere nate dall’albero del giardino di borgo Panigaro sono pere di Panigaro; analogamente i bambini che nascono in una casa a Panigaro sono “di Panigaro”: è un fatto naturale. Occorre qualcuno che raccolga le pere di Panigaro se le si vogliono vendere e mangiare. Ecco la giustificazione: il bimbo, nato a Panigaro, prima o poi, contribuirà col suo lavoro alla raccolta e al commercio delle pere del giardino. L’America si è arricchita con gli immigrati e con i figli, che essendovi nati, sono diventati cittadini Usa. Questi hanno fatto altri figli, mentre gli indiani si assottigliavano di numero e arretravano dal proprio territorio: ora stanno solo nelle riserve. E per l’immigrazione in Usa ora occorre una “green card”.

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