Jeremy Corbyn ed Emmanuel Macron (foto LaPresse)

Due belle facce di sinistra. Ma una stravince e l'altra perde sempre

Giuliano Ferrara

Corbyn piace, ma Blair al posto suo avrebbe trionfato. Macron si è liberato dei vecchi fardelli. E in Italia? Scegliete

Jeremy Corbyn è la sinistra che fa la sinistra, è socialista, è per le nazionalizzazioni, per la spesa pubblica assistenziale, odia l’austerità nei bilanci pubblici, dice di voler lavorare per i molti che soffrono e non per i pochi che se la godono, se ne fotte dell’Europa e del mercato unico: e questo gli ha impedito di andare al governo, di battere una improbabile e impacciata Lady May, incapace di sorriso e sfigurata da una grinta sgradevole, pessima campaigner con un programma che sembrava fatto apposta per svuotare uno a uno tutti i possibili bacini elettorali dei conservatori britannici, dai vecchi pensionati ai fondi finanziari d’avanguardia della City. Un Tony Blair, il leader del New Labour che ha vinto tre elezioni consecutive alla grande e ha cambiato la faccia della sinistra e dell’Inghilterra, avrebbe fatto polpette di una che si è permessa di presentarsi come l’anti Thatcher, lui che ha vinto e stravinto facendosene a suo modo l’erede. Domandarono infatti alla Iron Lady quale fosse la sua realizzazione più notevole e lei impavidamente rispose: il New Labour. Come un tempo rispondeva Berlusconi alla stessa domanda: Renzi. Corbyn ha una bella faccia rassicurante, vecchiotta, un padre o un fratello maggiore, uno che scalda i cuori del pacifismo e insemina tutte le madri ideologiche possibili del peggio dell’ideologismo, antisionismo antisemita compreso, ma è giudicato un primo ministro di Sua Maestà in potenza, pienamente legittimato dal suo 40 per cento a sorpresa, la sua vita è da common man, piena di gatti, di passeggiate, di un attivismo spontaneo nei modi di dire e di essere, non saprà dare il cinque, sarà anche goffo in molte manifestazioni della personalità, ma era l’antidoto a quella freddezza scolastica e pedagogica che affligge i conservatori dopo la grande stagione della rivoluzione neoliberale. E’ piaciuto, e ha perso.

 

Macron è la sinistra che si è stufata di domandarsi se è abbastanza di sinistra, si è liberato del fardello, delle catene ideoculturali, si è detto oltre il problema, ha fondato un nuovo partito e ha intrapreso una parabola che ha dell’incredibile, riuscendo ad archiviare, con una vocina da tenore di grazia che rinnega tutto il timbro baritonale del presidenzialismo già gaullista e mitterrandiano, i partiti storici delle istituzioni francesi, per di più marginalizzando non solo socialisti e destra ma anche l’estrema sinistra sognatrice e il frontismo postvichysta della dinastia Le Pen. Non lo diresti spontaneo, non è un piacione, salvo certe tenerezze riservate alla moglie anomala e a una famiglia allargata non tradizionale, e non tutti pranzano alla Rotonde, Montparnasse, e non tutti possono studiare nelle scuole che si aprirono al giovane figlio di medici della Piccardia, e gli garantirono una formazione utile alla funzione pubblica e alla banca privata, al mestiere dell’economista e al tratto inconfondibile dell’umanista parigino. Ha un volto giovane, promettente ma distante dal peggiorismo e dal pauperismo sociale, non sembra il tipo che vende alle masse la spesa pubblica indiscriminata, che garantisce lo status quo, è protettivo ma ha detto di voler procedere allo smantellamento del codice del lavoro per ordonnances, per decreti, e si lasciò sfuggire che nella sua mentalità un giovane che voglia diventare miliardario è tutt’altro che un criminale, è uno che vuole competere, per non dire della decapitazione del re, che “i francesi non volevano”. 

 

Ecco, è una sinistra da competizione, che può far star male chi ammira la barba curata ma non posturata di Jeremy, la sua cadenza radiosa di laburista al quadrato che strappa il profitto ai capitalisti e lo redistribuisce con metodi del vecchio keynesismo, una sinistra che sta anche a destra, il luogo tipico del neoliberalismo, della globalizzazione e dei mercati aperti, e un saluto caro ai miti ideologici della nazione, che per lui è lingua e cultura, non sangue e suolo. E ha vinto. Ha semplicemente sbaragliato il campo, questa sinistra che non si vergogna di non essere più sé stessa, e che pesca al centro e a destra gente utile a soluzioni utili, ha vinto con una performance senza precedenti e senza eguali, troppa grazia sant’Antonio.

 

Ora chi voglia può scegliere. Noi abbiamo una serie di pseudo Corbyn. Alcuni sono cavalli bolsi, gente come Paolo Ferrero, Marco Rizzo, Nichi Vendola eccetera. Altri sono strani ircocervi, gente che ha governato per fare lenzuolate liberalizzatrici, che viene dal riformismo emiliano, o che ha cercato penosamente e goffamente di battere il muro corporativo della Cgil di Cofferati senza cavare un ragno dal buco, i Bersani e i D’Alema. Poi c’è il Pisapia, un avvocato bravo della borghesia milanese affluente che ha fatto il sindaco borgomastro e rumina concetti di sinistra senza troppa convinzione. Infine c’è l’uomo solo al comando, quel Renzi che ha sbagliato quasi tutto tranne una cosa: uscire dal perimetro soffocante della sinistra che gioca a essere la sinistra, combinare alleanze e pasticci trasversali che gli fanno onore per quanto siano stati danneggiati dalla famosa accozzaglia, e ha anticipato perfino toni e programmi del macronismo. Scegliere si può. Scegliere senza illusioni. E’ il momento giusto.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.