Marine Le Pen e Matteo Salvini (foto LaPresse)

Gli anti europeisti in mutande

Claudio Cerasa

L’economia cresce, i lepenisti si dissolvono, i cialtroni si convertono e l’Europa torna di moda ma ha un problema: come sfruttare il ritorno del buonumore? Due idee anti sovraniste per costruire un’alternativa al mondo dei Putin e dei Trump

Sta succedendo tutto in fretta, sì, ma sta succedendo davvero, e quello che fino a poco tempo fa poteva sembrare solo un sogno lentamente sta diventando realtà, e giorno dopo giorno è sempre più evidente che il partito degli anti europeisti, dopo la sconfitta di Marine Le Pen, e non solo quella, guardandosi allo specchio si ritrova improvvisamente in mutande. I populisti non vincono da nessuna parte, zeru tituli. L’economia europea va come un treno, molti tituli. La disoccupazione migliora e alla fine dell’anno scenderà sotto quota 9,5 per cento per la zona euro, livello più basso dall’inizio del 2009, e a quota 8 per cento nell’Unione europea nel suo complesso. La crescita è alta come non mai, in Europa: è in aumento da sessanta mesi consecutivi e la Commissione ieri ha rivisto al rialzo (al rialzo!) i dati per il 2018 (1,8, non più 1,7).

 

E così non può sorprendere che i populisti non si sentano tanto bene e che l’anti populismo, l’anti lepenismo, l’anti sovranismo, l’anti cialtronismo, stia tornando di moda, per la disperazione del giornalista collettivo che sul populismo anti casta ha costruito la sua fortuna e gli zero sul conto in banca. Vale la pena dunque mettere qualche tassello uno accanto all’altro. Cominciamo? Cominciamo. Silvio Berlusconi (urrà!) dice no al lepenismo e ripete ormai da giorni che le elezioni si vincono più giocando con il centrismo che flirtando con l’estremismo. Roberto Maroni (gulp!) dice che il lepenismo è una boiata pazzesca e suggerisce al leader del suo partito (Marine Le Salvin) di puntare più sul federalismo che sul sovranismo. Alexis Tsipras (lo stesso, per capirci, che due anni fa con il suo governo accusò l’Europa di essere un covo di terroristi della finanza) oggi dice che l’Europa è un sogno possibile e che Macron (un banchiere, cribbio!) è un faro della sinistra riformista.

 

Marine Le Pen dopo la sberla elettorale ha scelto di rottamare il suo Fronte nazionale (facendo uscire di testa l’attuale presidente del fronte, Florian Philippot) e la stessa scelta l’ha fatta sua nipote Marion, la quale ha capito che se vuole avere un futuro politico deve emanciparsi dall’immagine della sconfitta della zia Marine (e così ha annunciato l’addio alla politica, a 27 anni). Joseph Stiglitz (premio Nobel a lungo campione del partito anti euro) poco prima delle elezioni francesi ha cambiato idea sulla moneta unica e ha smesso di dire stupidaggini sull’euro spiegando (all’interno di un appello pro euro) perché “c’è una grande differenza tra la scelta di non aderire all’euro dall’inizio e uscirne dopo averlo adottato”. Matteo Renzi ha cambiato registro (Europa sì, ma non così) e ha capito che il suo futuro non può che essere nel perimetro dei leader europeisti e non è un caso (piccolo segnale) che la campagna elettorale per le primarie abbia scelto di chiuderla a Bruxelles.

 

Il Movimento 5 stelle, dopo la sberla di Marine Le Pen, successiva alle sberle prese da Podemos, i Pirati islandesi, Wilders, e così via, ha scelto di giocare con l’ambiguità (dico e non dico) e sull’Europa ha iniziato a essere più cauto – e pur essendo il referendum sull’uscita dell’euro uno dei suoi punti forti (quasi forti, come direbbe Ferruccio de Bortoli) non troverete più nessun grillino attaccare la moneta unica con convinzione in un talk-show post vittoria di Macron. Se a tutto questo vogliamo aggiungere che dopo il voto in Francia anche uno dei più grandi gruppi editoriali d’Italia (il mondo di Urbano Cairo) sta mostrando piccoli ma significativi segnali di de-grillizzazione (poco spazio sul Corriere per la polemica sulla Boschi, nomina di un direttore di La7 non grillino come Andrea Salerno) si può dire che la sconfitta di Marine Le Pen non è solo la fine di un partito (che difficilmente farà il boom alle prossime elezioni legislative) ma è la fine di un’epoca (speriamo): quella dell’egemonia del pensiero unico populista. Il ritorno del buon senso – speriamo non passeggero – è una notizia che vale la prima pagina ma è una notizia che deve essere accompagnata da una domanda che probabilmente molti europeisti si staranno facendo in queste ore: l’Europa è salva, ok, ma cosa si può fare, ora, per togliere ai populisti qualsiasi speranza di rivincita futura? In altre parole: c’è un modo concreto (chiacchiere, no grazie) per sfruttare questa parentesi della storia in cui il mercato del malumore potrebbe essere sostituito da una politica del buon umore? La risposta è sì e coincide con un’idea che è stata accennata da Emmanuel Macron in campagna elettorale e che non è stata valorizzata dalla stampa italiana e anche da quella francese. Due parole chiave, apparentemente noiose ma potenzialmente rivoluzionarie: fiscal capacity. 

 

In termini tecnici, la fiscal capacity è la possibilità che l’area Euro abbia un bilancio dotato di risorse proprie, utilizzato per finanziare le riforme strutturali adottate dai governi. In termini politici, significa che i governi dell’Eurozona potrebbero sfruttare le disavventure dei populisti per creare un unico ministro dell’Economia (eletto dal Parlamento europeo e dal Consiglio europeo) capace di avere un suo budget con il quale emettere dei bond non per pagare i debiti pregressi ma per fare debiti finalizzati a stimolare crescita e investimenti (debiti che, essendo emessi da un’istituzione che avrebbe una tripla A, potrebbero essere ripagati con tassi di interesse molto bassi). E’ quello che vuole fare Macron (e che non ha mai provato a fare Hollande), è quello che suggerisce da tempo anche Mario Draghi (Bce) ma è quello che ha sempre detto anche Angela Merkel (e Martin Schulz non la pensa diversamente) ponendo una condizione che oggi potrebbe essere esaudita: colui che si occupa della politica economica europea non può essere un tecnico non eletto ma deve essere un’autorità legittimata dalla politica, alla quale i paesi membri (e i vari ministri dell’Economia) devono cedere un pezzo della loro sovranità.

 

Accanto a questo passaggio cruciale ce n’è un altro che insieme con il fiscal capacity può trasformarsi nel perfetto “combinato disposto” (ops!) che il fronte europeista dovrebbe utilizzare per neutralizzare per sempre il fronte sovranista e trovare una strada per occuparsi con più forza della sicurezza e della protezione dei cittadini: la difesa europea. In molti fanno finta di ignorarlo ma l’Europa vive all’interno di un paradosso mica male: dopo gli Stati Uniti (611 miliardi di dollari di spese militari all’anno), l’Unione europea è l’istituzione politica che ha la cifra più alta al mondo alla voce spese militari (circa 300 miliardi di dollari, la Cina ne spende 215, la Russia 69) ma nonostante questo abbiamo ventisette eserciti diversi, non coordinati, la cui disunione è alla radice di molti dei problemi che esistono nel nostro continente: incapacità di proteggere i nostri confini, incapacità di muoverci in modo coerente e compatto all’interno del perimetro della Nato, incapacità di non appaltare ad altri la sicurezza dei nostri paesi. L’Europa è viva, è forte, corre, funziona, migliora, marginalizza i populisti, converte gli anti europeisti, e questo è un fatto. Ma per evitare che il partito del malumore riprenda coraggio, il fronte europeista deve smetterla di occuparsi di sciocchezze e, come si dice, iniziare a cambiare registro.

 

Finora ci si è occupati prevalentemente di spiegare perché uscire dall’euro (e distruggere l’Europa) sarebbe stato un errore. Oggi tocca trovare un modo concreto per dimostrare che l’Europa può tornare a essere quello che fu un tempo: una nuova culla di civiltà, un esempio economico, l’unica alternativa possibile al modello di mondo immaginato dai Trump e dai Putin. Disse anni fa Benedetto XVI, che l’Europa “non è un continente nettamente afferrabile in termini geografici ma è invece un concetto culturale e storico”. Per dimostrarlo, oggi, non basta citare a caso De Gasperi e il manifesto di Ventotene. Serve spiegare perché cedere un po’ di sovranità è il modo migliore per essere più protetti e sconfiggere i sovranisti alla vaccinara.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.