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Prodigi demagogici. La Camera si trasforma in un bivacco di gitanti

Salvatore Merlo

Contro la retorica anticasta Montecitorio sceglie di diventare un museo. Una mostra al mese. Quell’avvertimento di Gramsci

A un certo punto, nel quaderno 22, con la sua calligrafia minuta e perfetta, Gramsci riporta il passaggio di un autore inglese che ha appena letto, mentre se ne stava chiuso nella sua cella: “Quando le cose vanno male nella struttura sociale di una nazione, a cagione della decadenza nelle capacità fondamentali dei suoi uomini, due distinte tendenze sembrano sempre rendersi rilevabili: la prima è quella di interpretare cambiamenti, che sono puramente e semplicemente segni della decadenza e della rovina di vecchie e sane istituzioni, come sintomi di progresso…”. E allora, mentre si scorrono le fitte pagine dei Quaderni, in questa mostra voluta dall’istituto Gramsci e dal tesoriere dei Ds (l’ultimo comunista d’Italia), cioè Ugo Sposetti, percorso più volte il corridoio dei busti di Montecitorio – tra De Gasperi e Matteotti, Giolitti e De Pretis – insomma dopo aver lungamente ascoltato il commesso donna (o la commessa?) parlare al telefonino mentre sgranocchia biscotti in fondo alla stanza (“eh sì, e che ti devo di’… anche mio figlio…”), risulta inevitabile constatare, con un misto di sorpresa e di divertimento, l’attualità di queste righe datate 1926. Sono infatti le due del pomeriggio, un sole inesorabile picchia sulla piazza, e al di là dell’obelisco, nelle eleganti geometrie settecentesche, le “provvisorie” (dunque definitive) transenne in metallo lucido riflettono il puro orrore dell’esistenza: una carovana di bambini in lacrime, di vecchie con la palpitazione e di gitaioli in sandali si appresta a entrare alla Camera che, senza bisogno di riforme costituzionali, è da tempo diventata un museo. Una natura morta. Non si sa bene se cominciò Bertinotti, o Fini, ma con Laura Boldrini la cosa ha preso un andamento definitivo. La presidente non solo ha trasformato il Palazzo in un’installazione – ci sono i busti dei politici femministi dell’800 e una sala “delle donne” – ma si è abbandonata alla filosofia delle “porte aperte”. Così c’è quasi una mostra al mese. Attività che rientra nella sacra categoria delle iniziative sociali. Vocabolo di quelli davanti ai quali bisogna levarsi il cappello come al passaggio di un funerale.

 

E la mostra dei Quaderni fa pensare che a Sposetti, e alla fondazione Gramsci, dovrebbero dare un museo vero, un museo dove far confluire tutto: i quaderni originali e i libri che Gramsci leggeva e annotava in carcere, la cultura e le testimonianze, tutto insieme a quel patrimonio che ancora i Ds posseggono, e non mostrano: le pipe di Bruno Trentin, i busti di Lenin e di Togliatti, le tessere e le bandiere, il mobilio e i carteggi, la cultura e il sentimento del Pci. Ma che c’entra il Parlamento, con la sua folla di visitatori incongrui, spinti a passare da Gramsci alla “sala delle donne”, dove Boldrini ha fatto imprimere sotto la fotografia intensa del volto di Tina Anselmi – che mai aveva usato questo neologismo – la parola “ministra”?

 

La musealizzazione del Parlamento è una botola del luogo comune. I gitanti entrano, e poiché non possono girare liberamente per i corridoi, gettano subito un occhio cupido e rancoroso alla tabaccheria della casta (se solo sapessero che si vendono anche sigari lussuosi…). La conquista del bagno – che permette di estendere lo sguardo sulle lampade verdi della sala lettura – dà luogo a sbracciamenti selvaggi, abiette suppliche, eroismi da medaglia al valore. I più intraprendenti cercano infatti di sfuggire ai commessi per farsi una passeggiata in Transatlantico. E delle mostre, ovviamente, non frega nulla a nessuno. Al contrario questo svicolare, questo gettare lo sguardo cipiglioso sui giornalisti scambiati per odiosi parlamentari, esprime sfida e coraggio turistico, la temerarietà che si celebra con un selfie di straforo. E la verità è che il meccanismo delle porte aperte, la musealizzazione del Parlamento come risposta ai demoni dell’anticasta, ha il volto goffo della demagogia e della decadenza istituzionale spacciate, come diceva Gramsci, appunto, per progresso. Come se la risposta all’imbonimento e alla sordità della politica, la risposta ai tribuni vocianti del blog, non possa essere semplicemente un Parlamento che fa il suo mestiere, cioè delle buone leggi.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.