Beppe Sala (foto LaPresse)

I sospetti di Renzi sulle ambizioni di Sala. Prove di leadership a Milano?

Salvatore Merlo

L'equidistanza del sindaco alle primarie non è solo una decisione personale ma è il riflesso di una borghesia in movimento

Roma. Durante la campagna elettorale milanese erano inseparabili, l’uno il volto narrativo dell’altro: l’Italia che “cambia verso” e si specchia nell’intraprendenza milanese dell’Expo. Adesso invece non si parlano più, da mesi. E un paragone plausibile suggerisce l’immagine di due compagni di scompartimento che, dopo ore di faccia a faccia, riacquistano tutta la loro estraneità non appena il treno rallenta per entrare in stazione. Così oggi Beppe Sala, il sindaco di Milano che fu simbolo del renzismo rampante, non fa campagna per le primarie, anzi nemmeno dice per chi voterà (“il problema non è chi si vota, ma capire la proposta di tutti”); mentre Matteo Renzi lascia che i suoi parlamentari e amici, a Roma, riducano ogni cosa a una scala monodimensionale, “Sala è un ingrato che adesso pensa di poter giocare una partita nazionale. Crede davvero che dopo Renzi c’è lui”. E certo bisogna fare la tara a questi lamenti, di carattere endemico e di andamento carsico, a queste gelosie che talvolta accarezzano la paranoia, ma che pure riaffiorano di continuo, almeno da quando il sindaco di Milano, a gennaio, mentre Renzi premeva per le elezioni anticipate, scrisse una lettera al Corriere della Sera per spiegare che sarebbe stato un errore far cadere anche Paolo Gentiloni. 

 

E allora il cosmo renziano riconosce in Sala quella cert’aria equivoca negli atteggiamenti, nei detti (per via delle recenti critiche al Lingotto), nel tono delle amicizie (perché dicono ascolti i consigli di Ferruccio de Bortoli), in una certa promiscuità famigliare (perché è fidanzato con la signora Chiara Bazoli, figlia del grande banchiere di sistema) e persino sociale, con una Milano borghese che il renzismo lo ha annusato e presto mollato. “Adesso gli hanno suggerito di interpretare il nord. Milano città stato”, dicono nel Pd milanese, dove, forse per carattere e antropologia, anche i renziani sono meno inclini al complottismo e alle contorsioni logiche di quanto non lo siano i loro colleghi romani. E infatti di Sala, alla fine, a Milano pensano bene. “Non è affetto da neurodeliri. E non crede di essere Prodi, o Napoleone. Sapevamo che non era ‘uno del partito’, ci aspettavamo gesti di autonomia, anche se forse non un distacco così evidente da Renzi, visto che il ballottaggio lui lo ha vinto solo grazie a noi. Tuttavia Sala non è matto e non vuole fare il leader del centrosinistra. D’altra parte, senza un partito alle spalle, è dura. Lui gioca piuttosto una partita lombarda. Territoriale. Almeno per adesso”. Anche se Milano – e questo non sfugge a nessuno – non è precisamente provincia. Ed è anzi la città che, desiderosa di plasmarsi, di acquisire sempre una personalità individuale e sempre nuova, ricerca e promuove quelle novità che poi determinano la vita nazionale. E infatti “interpreta Milano”, gli suggeriscono tutti, anche Marco Pogliani e i consiglieri che lo seguono come ombre, e lo curano e innaffiano come una piantina.

 

Ogni cosa in Italia, da Mani Pulite a Silvio Berlusconi, dal miracolo economico a Mussolini, dal Futurismo al Novecentismo, da sempre inizia e finisce a Milano. E se infatti in privato gli chiedono perché mai non sostenga Renzi alle primarie, lui risponde dicendo che “nella sua mozione c’è poco nord”. Dunque chissà. Così per adesso il sindaco rimescola a piene mani nella politica lombarda e nell’immaginario “dell’unica città italiana che ce la fa”, tende la mano a Giorgio Gori, il sindaco di Bergamo che vorrebbe candidarsi alla presidenza della regione, esprime qualche riservata perplessità nei confronti di una possibile candidatura di Maurizio Martina, con il quale pure ha un rapporto quasi quotidiano (anche se difficile). La sua freddezza nei confronti di Renzi, da quando l’ex presidente del Consiglio ha perso il referendum, è forse un modo, vista l’aria che si respira nel paese e nei sondaggi, di prendere in piena faccia il vento che tira, cercare di accoglierlo e diventarne – in caso – parte stessa. Ma tempo al tempo. Un passo alla volta. Adelante con juicio.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.