(foto LaPresse)

Quel gioco di specchi tra Alitalia e la Rai

Salvatore Merlo

“Dal punto di vista sostanziale Viale Mazzini sta peggio della compagnia aerea”, dice Minoli. E Freccero: “Qui la modernità bussa, ma nessuno apre”. Il destino di Campo Dall'Orto

Roma. “Niente come la Rai spiega l’Italia, un cosmo non completamente statalista ma nemmeno liberale, un paese che sta a metà del guado”, dice Carlo Freccero, consigliere di amministrazione, una lunga biografia di sorgivo creatore di tivù. Mentre Giovanni Minoli, che l’azienda l’ha abitata anche lui tutta la vita, assume un ritmo algebrico: “Circa 12.000 dipendenti, quasi 1.700 giornalisti, oltre 2.000 collaboratori… e produce in outsourcing l’ottanta per cento di quello che trasmette in prime time. La Rai è un welfare, è l’ultima sacca di socialismo reale. E se c’è una differenza con Alitalia, è che la Rai ha due miliardi di euro garantiti per i prossimi dieci anni dal canone. Ma dal punto di vista sostanziale, sta peggio di Alitalia. Almeno in Alitalia ci sono i piloti. Alla Rai non ci sono manco questi. I piloti sono esterni, sono le società di produzione”.

 

E sempre l’Italia si è identificata, amando e odiando, in altalena, la sua compagnia di bandiera e la sua televisione pubblica. Così adesso che Alitalia si attorciglia nella sua ultima crisi, adesso che il salvataggio di stato ritorna un’opzione come ai tempi allegri dell’Iri e della spesa, ecco che il gioco di specchi, di rimandi e di analogie è quasi inevitabile. Ed è infatti come se il torvo destino che si abbatte sul (quasi) ex carrozzone volante stia accarezzando, come un’ammonizione biblica, anche il carrozzone televisivo, che non sa, non può, e non vuole riformarsi. Oggi pomeriggio si riunisce infatti il consiglio di amministrazione, e la stagione di Antonio Campo Dall’Orto al vertice della Rai arriva di fatto a conclusione, anche se nessuno sfiducerà l’amministratore delegato. Non ancora. Non oggi. I consiglieri si sono accordati ieri sera per prendere tempo, aspettare una mediazione della politica – sempre lei – e dare l’onore delle armi a Campo Dall’Orto. O forse, sostiene qualcuno, la strategia del prendere tempo è invece un tentativo forsennato di costringerlo alle dimissioni. Ma intanto la rivoluzione in Rai è fallita. Questo è sicuro. E la modernità, che forse bussava alla porta di Viale Mazzini, pur tra pasticci e timidezze, ipocrisie e fallimenti, è stata respinta, ricacciata indietro dall’eternità di foresta dello statalismo italiano. “Avremmo potuto fare tante cose, e non ci siamo riusciti”, dice allora Freccero. “L’azienda è stata dotata di un amministratore delegato. Ma questo amministratore poi, in realtà, non può comandare, deve invece rispettare tutta l’arzigogolata burocrazia parlamentarista. Ci sono i partiti, ci sono le strutture sedimentate e lottizzate, ci sono i minuetti e i rituali… L’ad deve persino rendicontare le assunzioni. Abbiamo un ad che deve rispondere per quello che fa a ‘san’ Raffaele Cantone. Ma in quale azienda che sta sul mercato esistono meccanismi di questo tipo?”. Dice allora Minoli: “C’è tutto un modello organizzativo sbagliato. La Rai andrebbe rifondata. E ri-fondata vuol dire anche ri-pensata, nella sua missione. E’ servizio pubblico o è commerciale? Facciamo nani e ballerine, o le grandi fiction come ‘I Medici’? L’identità la fa il prodotto”.

 

E certo i conti sono in equilibrio, l’audience va bene, e il canone garantisce che questa struttura in cui sembrano sublimarsi tutte le contraddizioni d’Italia si tenga in piedi. “Ma prima o poi bisognerà mettere a tema una serie di passaggi”, dice Freccero. “Non so per quanto tempo ancora l’azienda possa avere anche la funzione di ammortizzatore sociale, che porta al suo interno il ‘ricordo’, quasi fisico, di tutti i poteri che si sono susseguiti. Perché qui in Rai ogni potere ha lasciato in eredità del personale, delle strutture, ha depositato qualcosa che si è nel tempo stratificato. Questa azienda è composta di lottizzazioni che si sono accavallate l’una sull’altra. Quanto può durare così, ancora? Bisognerebbe invece pensare a un futuro da media company, capace di offrire tv on-demand. Bisogna stabilire se eliminare la pubblicità, e da quali canali. E poi l’azienda deve dimagrire. Dev’essere più agile. E se possibile meno condizionata dai partiti”. Erano le premesse della rivoluzione promessa da Campo Dall’Orto. Ma oggi questa storia, in qualche modo, anzi in malo modo, è finita.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.