Un momento di un comizio di Macron. Foto Boivin Samuel/ABACA

Make Europe great again

Claudio Cerasa

Il partito della nazione forse funziona solo in Francia, ma il partito della ragione è forte e può salvare anche l’Italia

L’affermazione di Emmanuel Macron al primo turno delle elezioni francesi – un conto è passare in pochi giorni dallo zero per cento al 23,7 per cento (Macron), un conto è passare in cinque anni dal 17,9 per cento al 21,7 per cento (Le Pen) – offre molti spunti di riflessione e permette di ragionare su una quantità innumerevole di argomenti che abbraccia tutti i grandi temi della politica contemporanea: la salute dei partiti tradizionali, le caratteristiche di una leadership, il senso delle primarie, l’alternativa tra apertura e chiusura, la sfida tra globalizzazione e protezionismo, la volatilità dell’elettorato, e così via. A voler però selezionare alcuni temi intorno ai quali costruire un ragionamento che possa aiutarci a far tesoro del voto francese, la scelta non può che ricadere su tre questioni chiave che ci permettono di osservare in controluce il vero significato dell’ascesa di Macron: Europa, sinistra e populismo.

 

 

Sulla sinistra la storia del candidato indipendente francese ci dice molte cose ma ce ne dice una in particolare: nell’Europa di oggi l’unica sinistra che può essere competitiva è una sinistra che decide di non essere più prigioniera degli spettri del Novecento, accettando di fottersene del problema di non avere nemici a sinistra e provando a rompere le catene del passato governando la globalizzazione (non respingendola), combattendo la povertà (non la ricchezza) e costruendo una base popolare con iniezioni di magico realismo (e non di bieco populismo). Una sinistra che si comporta così è una sinistra che ce la può fare e che può parlare in modo naturale a un pezzo di paese che non corrisponde esclusivamente alla base dei propri iscritti. Da questo punto di vista la svolta di Macron è esemplare (le vere primarie della gauche francese hanno coinciso con il primo turno elettorale più che con le primarie dei singoli partiti) ed è una svolta che costringerà il Partito socialista francese a riscrivere le sue coordinate politiche (si spera).

 

Ma la svolta di Macron ha un peso ancora maggiore se la si inserisce all’interno di una particolare condizione in cui si trova oggi l’Europa. E il fatto che Macron abbia scelto esplicitamente di trasformare in uno straordinario punto di forza l’immagine delle stelle dorate che compongono la bandiera dell’Unione europea ha un significato importante. Sia perché dimostra che l’europeismo ha un futuro. Sia perché aiuta a mettere a nudo una grande balla dei nostri giorni: la presenza in Europa di una inarrestabile egemonia anti europeista. Le forze anti sistema sono una realtà oggettiva del nostro continente e in molti paesi (compresa la Francia) se la giocano spesso sul filo di lana con i partiti anti sfascisti. Ma se il voto del primo turno francese verrà confermato anche al ballottaggio di domenica 7 maggio, l’Europa non avrà soltanto per la prima volta nella sua storia un leader riformista capace di incarnare in modo plastico il sogno europeo, ma avrà anche la conferma di avere gli anticorpi per fare quello che negli ultimi mesi non è riuscito né alla Gran Bretagna (Brexit) né agli Stati Uniti d’America (Trump). In altre parole: respingere l’assedio populista. La cronaca quotidiana ci fa perdere spesso di vista la realtà, ma se allarghiamo l’inquadratura del nostro ragionamento vedremo un’Europa di cui raramente ci rendiamo conto. Un’Europa che oltre a crescere a un ritmo superiore rispetto a quello degli Stati Uniti (1,7 contro 1,6) è riuscita a tenere a buona distanza dalle posizioni di governo tutti i partiti anti sistema che hanno tentato di vincere le elezioni, dimostrando di essere più forte, più stabile e più inclusiva di quanto pensino molti commentatori. In Spagna, Rajoy ha fermato Podemos. In Austria, il verde Van der Bellen si è imposto sul candidato di estremissima destra Hofer. In Islanda, il Partito dei pirati, è stato surclassato dal partito conservatore. In Slovacchia, Fico ha spazzato via i populisti. Il Portogallo ha scelto come presidente il conservatore Rebelo. In Olanda, Wilders è stato sconfitto dal conservatore Rutte. In Grecia un partito (Syriza) che avrebbe avuto la possibilità di uscire dall’euro ha scelto di restare nell’euro e di cancellare il proprio profilo anti sistema per trasformarsi in partito di sistema. In Germania, il partito anti immigrazione e anti euro (AfD) è in crisi ed è destinato a ricoprire un ruolo marginale nelle elezioni di settembre. In Inghilterra con ogni probabilità sarà un partito responsabile (quello conservatore) a vincere le elezioni (giugno) e a gestire senza fanatismi l’uscita dall’Unione europea. E infine, salvo miracoli, lo stesso destino (la sconfitta) dovrebbe toccare il 7 maggio a Marine Le Pen. Se tra due settimane la vittoria di Macron verrà confermata, nell’elenco dei paesi sotto osservazione (e più “a rischio” come ha scritto ieri il Financial Times) resterebbe ovviamente solo l’Italia, le cui elezioni sono fissate nella primavera del 2018.

 

 

Dal suo punto di vista, Renzi ha buone ragioni per considerarsi un parente stretto di Macron, e la scelta di scommettere sulla vittoria del candidato della post gauche (lo slogan delle primarie di Renzi è “In cammino”, traduzione italiana di “En Marche!”) può permettere al prossimo probabile segretario del Pd di inscrivere il percorso del proprio partito in una nuova cornice: quella della Terza Vita del riformismo europeo. Ma ispirarsi a Macron può avere senso solo se verrà compreso a fondo quello che è il messaggio del candidato francese: la rivoluzione populista si è fermata, è ora di lanciare una contro-rivoluzione democratica ed europeista per trasformare l’Europa nel nuovo e vero baluardo dell’occidente.

 

 

La formula del partito della nazione forse può funzionare solo in un paese come la Francia dotato di un sistema che favorisce in modo naturale la convergenza tra elettorati al secondo turno (e per questo non bisogna sottovalutare le possibili convergenze tra l’elettorato di Mélenchon e una parte dell’elettorato sia di Fillon sia di Hamon e il possibile crollo della partecipazione al secondo turno che potrebbe aiutare Marine Le Pen a realizzare una clamorosa rimonta, come teorizzato da Roger Cohen il 14 aprile sul New York Times). Ma se per il partito della nazione è forse tardi, in Italia, non è invece tardi provare a dar vita a un partito diverso, perfettamente definito ieri da Jacques Attali in una bella intervista al Corriere: il partito della ragione. Il mercato del malumore – prova a insegnarci Macron e prima di lui Rajoy, Rutte, Merkel, Schulz – non si combatte accettando il terreno scelto dai populisti per giocare la partita dello sfascio. Lo si combatte ribaltando il tavolo, difendendo la globalizzazione, smontando il protezionismo, tutelando la politica dell’apertura e provando a dare voce a quello che è il vero messaggio nascosto dietro l’ascesa di Emmanuel Macron: Make Europe Great Again. E se il messaggio può funzionare contro i populisti seri (Le Pen), chissà che non funzioni ancora meglio contro i nostri populisti, comici, senza spessore e senza speranze.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.