Paolo Romani (foto LaPresse)

Il "manifesto" di Paolo Romani e Forza Italia per dialogare con il Pd

David Allegranti

Il presidente dei senatori azzurri parla dopo l'intervista di Zanda (Pd) al Foglio: “Serve un confronto fra forze che hanno oggettivamente un problema comune. Il M5s”

Roma. Legge elettorale, riforma dello Stato, lotta al malessere sociale. Paolo Romani, presidente dei senatori di Forza Italia, ha letto con interesse l’intervista di Luigi Zanda al Foglio e propone al Pd un “manifesto” per un dialogo insieme (Renato Brunetta, capogruppo alla Camera, ha scritto invece una lettera critica a Dagospia: “Annunciare questa intenzione di ‘grosse koalition’ ante elezioni e lavorare fin da subito per realizzarla sono due assist fenomenali alla dialettica populista del M5s”).

  

 

C’è una premessa da fare, dice Romani, e riguarda la storia e la genealogia del centrodestra italiano. “In Italia la destra, che è sempre stata fuori dall’arco costituzionale democratico, non ha mai avuto cittadinanza finché non è arrivato Silvio Berlusconi. È stato lui a riunire le esperienze culturali liberali, cattoliche e riformiste, inventando un partito che si è alleato con la destra. Così è nato il centrodestra, che ha vinto, perso, fatto l’opposizione e svolto fino in fondo un ruolo di forza di governo democratico. La destra nel corso del tempo è cambiata, il Movimento Sociale Italiano ha avuto la sua Bad Godesberg, così come oggi la Lega, che da partito territoriale e secessionista è diventato un partito nazionale, chiaramente collocato a destra. La Lega di Bossi non era così”. A partire dallo schieramento in Parlamento, dove la Lega si è sempre seduta fra Forza Italia e la sinistra. “In questi 20-25 anni è diventata una forza di governo, con alcuni esponenti di spicco, da Roberto Maroni a Luca Zaia, che hanno consensi personali straordinari. Abbiamo governato insieme città, province e regioni. Dunque, qualsiasi valutazione non può prescindere dal rapporto con la Lega e mi fa piacere che anche Zanda le riconosca di essere un partito di destra, ma democratico, quale effettivamente è”. Fatta questa premessa, Romani dice che “c’è dunque una questione da risolvere, cioè l’apertura di un dialogo fra forze che hanno oggettivamente un problema comune: il movimento, antisistema e antidemocratico, dei 5 Stelle”. Prima però bisognerebbe capire come si è arrivati a questa situazione, sottolinea Romani. “Tutti i partiti hanno fallito un tentativo di riforma costituzionale, ma questo non significa che non si possa comunque fare una riforma dello stato, diminuendo la burocrazia, abbassando le tasse e togliendo una serie di privilegi di casta e corporazioni. C’è un sistema che blocca l’un per cento del pil e fa la differenza con altri paesi. Servirebbe dunque quella famosa riforma liberale che non si è mai fatta, e che potrebbe essere compiuta con una legge ordinaria. Così rivitalizzeremmo il popolo italiano”.

 

 

 

Il primo tema, concreto, su cui Forza Italia e Pd possono trovarsi è la legge elettorale. “Oggi c’è una situazione che non si era mai verificata prima; esiste un sistema tripolare e quindi quel principio di governabilità nel quale abbiamo creduto noi, e nel quale ha creduto anche Renzi, deve coniugarsi con il concetto di rappresentanza. Avendo tendenzialmente un obiettivo comune, quello di rendere più snelle ed efficienti le istituzioni, i partiti hanno il dovere di risolvere il problema della legge elettorale, che certo non appassiona i cittadini e non dà da mangiare a nessuno, ma che consegna al paese un sistema di governo efficiente o meno”. Per il presidente dei senatori forzisti, che trova “sterile questo dibattito Mattarellum sì-Mattarellum no, Italicum sì-Italicum no”, ci sono quattro punti su cui il suo partito e il Pd possono ragionare per trovare un’intesa. Primo: “Vogliamo le preferenze o riteniamo che siano un sistema che manda in parlamento il peggio di questo paese, perché figlio dei voti di scambio? Se si sceglie il sistema non delle preferenze, la soluzione è il collegio uninominale o plurinominale; ambedue i sistemi sono ammessi dalla sentenza della corte”. Punto due. “Siamo nelle condizioni di aprire al sistema della coalizione? Il centrodestra ha una sua storia, che non può essere sintetizzata nel famoso listone e che peraltro darebbe alle segreterie di partito il compito di fare delle scelte, anziché farle fare agli elettori. In un sistema di coalizione, che è dunque democratico, i cittadini potrebbero scegliere il partito che preferiscono” (e a Giovanni Toti, governatore della Liguria, fischieranno non poco le orecchie). Terzo punto, le soglie. “Va bene il 40 per cento? Coalizione al Senato o alla Camera? Se il sistema elettorale prevede un premio di maggioranza nazionale, probabilmente ci dovrà essere anche al Senato, che potrebbe o dovrebbe essere su base regionale, aprendo anche qui una serie di problematiche”. Quarto e ultimo punto da affrontare: il meccanismo di proporzionalità. “In un sistema tripolare, non potendo un premio di maggioranza consegnare a un partito del 30 per cento per cento il 55 per cento dei seggi, perché sarebbe sanzionato, ci vuole un metodo proporzionale, in nome del principio della rappresentanza”. Insomma, sono questioni sulle quali serve un dibattito serio, spiega Romani. “Il presidente della Repubblica ci ha chiesto una legge elettorale chiara ed efficace, e soprattutto omogenea fra Camera e Senato. In una discussione sui principi come questa, a mio avviso rispetteremmo fino in fondo la richiesta di Sergio Mattarella di darci una legge elettorale efficiente, efficace e largamente condivisa”. Non è che ci sia molto tempo da perdere, oltretutto. “Siamo a dieci mesi dalle elezioni, e il Parlamento ha necessità di risolvere questo problema, che è di rappresentanza e di credibilità dei partiti; i partiti sono in crisi, anche di partecipazione. Basta vedere il Pd, che è il più strutturato; ha dimezzato gli iscritti. Peraltro vedremo quante persone andranno a votare alle primarie del 30 aprile”. I partiti non sono più attrattivi, per questo a qualcuno è venuta voglia di farne a meno, “ma sostituirli con la piattaforma, cioè i Cinque Stelle, provoca dei danni; il loro sembra un modello di democrazia diretta, ma è solo una democrazia d’élite senza una l’élite che sia veramente tale”.

 

 

Naturalmente, la legge elettorale non è di per sé sufficiente a risolvere i problemi degli italiani. Bisogna tenere conto del malessere sociale, che “è spaventoso. Ci sono 4 milioni e mezzo di italiani poveri e 10 milioni sulla soglia della povertà. Nel frattempo, tra i 180 mila e i 200 mila migranti economici stanno per arrivare in Italia, e noi dobbiamo mantenerli perché l’Europa se ne frega di noi. Non è più una questione di destra o di sinistra. L’Italia non può avere un atteggiamento solidale e generoso come è stato fatto finora, perché non ce lo possiamo permettere. Non possiamo mettere il costo di questi migranti davanti al diritto dei cittadini italiani ad avere un reddito di inclusione. Il ministro Minniti su questo tema ha detto una frase centrale: l’immigrazione deve confrontarsi con la sensibilità del paese. Che è cosa diversa dall’atteggiamento del ‘carichiamoceli tutti’. Il comportamento delle Ong ai limiti delle acque territoriali libiche è scandaloso”. Difficile però che il Pd su questo possa essere d’accordo.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.