Elezioni nazionali in Italia nel 2008

Vincerà il proporzionale. Sabino Cassese ci spiega come nasce una Repubblica neo populista

Redazione

Il patrimonio tradizionale della democrazia va in soffitta.

Professor Cassese, lei ha dichiarato, nei giorni scorsi, in televisione, che è ozioso discutere di legge elettorale. Eppure il Parlamento, sia pure a giorni alterni, ne discute.

Ecco le ragioni di quell’affermazione. Il disaccordo è grandissimo. Le forze politiche (ma si può ancora chiamarle “forze”?) sono divise, tra di loro e al loro interno. La loro inclinazione a tentare di contarsi nel Paese e ad andare tutte in Parlamento, per poter contare al tavolo delle future trattative, è fortissima. Si preferirà andare alle elezioni con le esistenti leggi elettorali, diverse per i due rami del Parlamento e composite perché ambedue opera mista di Parlamento e di Corte costituzionale.

 

Allora, che cosa suggerisce?

Di pensare concretamente a porre riparo alle conseguenze dell’inesorabile mancato cambiamento, cioè ad elezioni sostanzialmente proporzionalistiche, assemblee frammentate e forse contrapposte, difficoltà di formazione del governo e di una maggioranza legiferante. Quindi, necessità fin da ora di pensare a un minimo comune denominatore di programma di governo condiviso e di tirar fuori qualche personalità di “federatore”, capace di interpretare questi nuovi tempi.

 

Perché nuovi tempi?
Nuovi per due motivi. Il patrimonio tradizionale della democrazia sta andando in soffitta. Pensi a quale importanza abbiano avuto per la storia della democrazia la libertà di riunione e quella di associazione. Questi erano gli strumenti di base della democrazia. Ora sono divenute meno importanti. Gli associati nei partiti sono pochi. Si preferisce la rete. Viene persino rifiutata la parola partito, o quella di associazione. Con conseguenze grandissime: i rapporti sono solitari, impersonali, spesso aggressivi, non “faccia a faccia”. Si avvera la profezia di David Riesman (“The Lonely Crowd”, titolo di un libro fortunato, tradotto in italiano con il titolo “La folla solitaria”, seguito da “Faces in the crowd”).


Ma allora dov’è il populismo? Ci sbagliamo nel pensare che sia questo che impera oggi nel mondo?
Quello che chiamiamo populismo è neo-leaderismo condito da continui appelli al popolo, di necessità fondati da una forma di “single issue politics”, semplificante, che riduce la politica e le politiche in pillole, tipo i compensi Rai e i vitalizi parlamentari. Gli elementi di questo stato di cose sono noti, ma si mescolano ora in modo nuovo. Conosciamo la figura del demiurgo (debbo ricordare Mussolini?). Conosciamo i plebisciti (De Gaulle o ancora Mussolini). Conosciamo l’egualitarismo (ricorda la “giungla retributiva”?). Ora c’è in più quell’”agorà” dove tutti sono presenti, tutti comunicano con tutti, ma nessuno si vede in faccia, tutti dialogano, ma a senso unico, senza davvero discutere, formarsi opinioni, essere aperti a farsi convincere. I temi vengono lanciati e discussi, ma nessuno ne valuta il peso.

 
Che vuol dire?
Voglio dire che tutti mi paiono all’inseguimento di temi di grande richiamo, senza valutarne il peso effettivo; temi che solleticano interessi, curiosità, invidie, ma hanno spesso poca incidenza, mentre quelli importanti vengono dimenticati. Tutto questo con una forte collaborazione di radio, televisione e giornali, tutti alla ricerca del grande evento o della notizia che colpisca. Così si dà una lettura sbagliata del Paese e si spinge a semplificare (basta togliere i vitalizi, abbassare gli stipendi Rai), mentre la macchina statale ha bisogno di persone che sappiano stringere le viti e avvitare i bulloni.

 
Per non restare nell’astratto, perché non indica lei i temi che andrebbero affrontati, discussi e risolti?
Mi limito a uno soltanto, quello forse più grande di tutti, quello che va sotto il nome di riforma amministrativa, ma non nei termini generali che attrassero già tanti anni fa la critica di Benedetto Croce. Ora, Renzi ci ha provato, ma si è arenato. Metà della sua legge – la metà importante, sul pubblico impiego e sulla dirigenza - è stata azzoppata in dirittura d’arrivo, l’altra metà è per ora solo affidata alla legge, manca dell’attuazione amministrativa, che è quella che conta. Intanto, forze varie si muovono per andare in direzione opposta. Circa 90 mila sono i nuovi assunti nella scuola (i supplenti). Circa 95 mila gli impiegati che si vorrebbe stabilizzare, con l’argomento che si tratta di “precari stabili” (ecco un nuovo ossimoro). Altre proposte di stabilizzazione in modi vari circolano. Persino questi numeri sono incerti e io stesso li sto usando con qualche dubbio. Ma rappresentano ordini di grandezza. Ora, faccia il confronto tra quello che tutto questo può costare e il costo dei vitalizi o degli stipendi Rai, che tanta attenzione richiamano.

 
Lei è, quindi, contrario a nuove assunzioni e favorevole a vitalizi e stipendi alti?
No, affatto. Sono contrario a procedere in questo modo impressionistico. Perché non si calcolano davvero carichi di lavoro, esigenze amministrative insoddisfatte, vuoti da colmare; perché non si calcola il costo da affrontare, si fa un piano di assunzioni e ricambi, con i criteri dettati dalla Costituzione, in modo da rispettare eguaglianza e merito? Perché non si calcolano i costi complessivi delle provvidenze tanto criticate e li si compara con gli altri costi?

 
Ma non ha scritto lei più volte che non bisogna partire dal personale pubblico, bensì dalle funzioni, dagli obiettivi?
Infatti, non ritengo funzionale partire dalla sistemazione di personale, che suscita sempre il dubbio sulle cause: si fa perché serve al servizio pubblico, oppure perché serve a tener buono e a conquistare l’elettorato? Serve a mettere a tacere le proteste a spese dell’Erario, o a migliorare i servizi pubblici?


Se si dovesse ripartire dalla parte giusta, da dove consiglia di prendere le mosse?
Dalla critica degli economisti. Da ultimo, Andrea Boitani, nel suo bel libro su “Sette luoghi comuni sull’economia”, edito da Laterza, ha indicato alcune strozzature che dipendono dai grandi corpi amministrativi. Un anno fa, Vincenzo Visco ha notato che “i nostri problemi sono noti: illegalità diffusa…; sistema giuridico obsoleto, soprattutto quello relativo all’economia; burocrazia paralizzata e vittima del diritto amministrativo e cioè di una visione organicistica del settore pubblico” (“Repubblica” del 27 aprile 2016). Un anno prima, Annamaria Nifo e Gaetano Vecchione, in un saggio sulla misura della qualità delle istituzioni italiane (nella “Rivista economica del mezzogiorno”, n. 1- 2 del 2015) hanno presentato un quadro molto preciso delle condizioni dell’area pubblica. Prima ancora, Romano Prodi si era espresso in termini critici nei confronti della macchina statale.

 
Condivide queste critiche?
Non tutte, ma ritengo che siano punti di vista che dovrebbero smuovere qualcuno, spingere ad analizzare la situazione, preparare un “libro bianco”, elaborare proposte. I nodi amministrativi stringono e pesano.