Riunione della giunta capitolina. Carla Raineri, Virginia Raggi (foto LaPresse)

L'uso strumentale della legalità è ben spiegato dall'affaire Raggi-Raineri

Dino Cofrancesco e Fabrizio Borasi

Il siluramento del capo di gabinetto del Comune di Roma (avallato dall’Anac di Cantone) era illegittimo

Tutti sappiamo che la legalità nella politica e nell’amministrazione pubblica è una cosa di cui c’è un gran bisogno nel nostro paese, ma dato il carattere intricato e contorto di molte delle nostre leggi, capita sovente che il pretesto della legalità venga usato in maniera strumentale per giustificare decisioni di tipo discrezionale in modo da non assumersi la responsabilità delle stesse. Un esempio di questo uso strumentale della legalità lo possiamo vedere in una delle tante vicende legate ai primi mesi di mandato del neo sindaco di Roma Virginia Raggi, quella della nomina a capo di gabinetto di Carla Romana Raineri, magistrato ordinario e già collaboratrice del commissario straordinario incaricato di amministrare la città di Roma dopo le dimissioni del sindaco Marino. Com’è noto, appena un mese dopo avere effettuato la nomina, il primo cittadino di Roma, affermando di essere assalito da dubbi sulla legittimità della stessa, ha chiesto un parere in merito all’Autorità anticorruzione, la quale a tempo di record (date le lungaggini ordinarie delle procedure pubbliche italiane) in poco più di mezza giornata si è riunita e ha stabilito che la nomina non rispettava le procedure; con altrettanta rapidità il “responso” è stato consegnato al sindaco che a poco più di ventiquattro ore dalla richiesta poteva già postare sul personale profilo Facebook la propria decisione di ripristinare la legalità violata revocando l’incarico alla Raineri, la quale peraltro nel frattempo si era già dimessa risparmiando al sindaco, e a se stessa, il provvedimento di revoca per illegittimità della procedura.

 
Anche senza addentrarci nell’intricata giungla dei princìpi giuridici, risultano evidenti alcune cose decisamente anomale, che ci fanno pensare appunto a un uso strumentale della legalità. Innanzi tutto la retribuzione e l’inquadramento in servizio della Raineri disposti dal sindaco avevano correttamente seguito le regole previste per il personale del massimo livello dirigenziale (e se tale non fosse il capo di gabinetto a Roma, in quale comune potrebbe esserlo?), e quindi non vi era alcun motivo per giudicare illegittima la nomina, come ha del resto riconosciuto la Corte dei conti con una recente decisione di archiviazione di un possibile giudizio di responsabilità per danni al patrimonio pubblico, riferito all’importo della retribuzione assegnato alla Raineri. Tutto ciò a smentita delle affermazioni dell’Autorità contenute nel parere richiesto ed emanato a velocità supersonica, parere che inoltre presenta a sua volta alcune evidenti pecche in tema di legittimità.

Per prima cosa i pareri, siccome servono a consigliare, debbono essere emanati prima della decisione da prendere: un parere come quello dell’Autorità diretto a valutare una decisione già presa, nel nostro caso la nomina del capo di gabinetto, non è certo un modello di quella legalità che si vuole tutelare “a spada tratta”: è come se qualcuno volesse sottoscrivere il preliminare di vendita dopo avere già acquistato l’immobile. Inoltre, cosa altrettanto importante, l’Autorità anticorruzione, pur essendo divenuta agli occhi di molti anche grazie all’attivismo del suo presidente Raffaele Cantone, una specie di custode ultimo della legalità nelle amministrazioni pubbliche, non dispone di una sorta di potestà illimitata in questa materia, e la valutazione della nomina del capo di gabinetto del sindaco non rientra tra le sue competenze previste per legge: un altro motivo di illegittimità del parere decisamente grave. A tutto ciò si aggiunge l’atteggiamento finale del sindaco, certo in linea con le “mode” della comunicazione telematica, ma non certo conforme anche in questo caso alla legalità, che non solo avrebbe vietato di divulgare sui social network un parere che reca espressamente la dicitura “riservato”, ma avrebbe imposto prima di emanare l’atto di revoca e poi di comunicarlo al pubblico. Un atteggiamento che in sostanza non ha lasciato all’interessata altra alternativa che quella di dimettersi, visto che un incarico quale quello di capo di gabinetto non si può mantenere contro la volontà del sindaco dato il rapporto di fiducia che deve esistere tra i due.

 
Di qui alcune considerazioni. Certamente, proprio per via di questo necessario rapporto di fiducia che deve correre tra un sindaco e il suo capo di gabinetto (che in sostanza è il suo braccio destro negli affari politici) la Raggi avrebbe potuto legittimamente revocare l’incarico alla Raineri per motivi che potremmo definire politici, di opportunità, di gradimento professionale ecc., e poco o nulla si sarebbe potuto contestare dal punto di vista legale ad una tale decisione, salve le legittime critiche sul piano appunto dell’opportunità di revocare una scelta fatta appena un mese prima. Perché allora, ci chiediamo, il sindaco ha voluto far passare per illegittima una nomina perfettamente legale così da poterla revocare? E perché l’Autorità anticorruzione si è prestata a sostenere una tale decisione con così tanta solerzia e così poca legittimità nel proprio agire? Abbiamo parlato di un uso strumentale della legalità: la legalità intesa come copertura idonea ad avallare anche le decisioni più discrezionali. Ma è vera legalità questa? Forse la vicenda della revoca (formalmente dovremmo dire delle dimissioni lampo) del capo di gabinetto del sindaco di Roma è un segnale, uno dei tanti segnali che la nostra società ci manda, di una situazione di crisi molto profonda anche riguardo al valore del rispetto delle “regole del gioco”, che coloro che gestiscono la cosa pubblica dovrebbero essere i primi ad osservare.

 
Intendiamoci, l’Italia, da sempre patria del diritto, non è mai stata patria della legalità, ma negli ultimi tempi la situazione è precipitata anche da questo punto di vista. Alle violazioni più palesi e “sfacciate” delle norme, ad esempio in tema di sicurezza individuale di fronte ai fumosi ideali dei buonisti, o in tema di tutela di consumatori e risparmiatori di fronte alla finanza spesso troppo “creativa”, si accompagnano per contro controlli sempre più esasperati diretti a colpire nel cittadino anche le minime trasgressioni di regole fiscali, ambientali o di altro tipo decisamente cervellotiche, nonché casi come quello di cui siamo occupati nei quali l’amore sbandierato (o twittato) a gran voce per la legalità serve a giustificare decisioni che non si può o non si vuole motivare e che vengono appunto presentate come atti “necessari” emanati in nome della forza “inderogabile” della legge. Una situazione che rischia, ma forse più che di rischio si deve ormai parlare di probabilità concreta, di trasformare il nostro Paese in una repubblica delle banane, cosa che probabilmente non è sgradita a qualcuno, a condizione ovviamente che le banane rispettano i parametri legali di curvatura previsti dall’Unione europea.

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