Se questa è giustizia

Piero Tony

Buone ragioni per ripensare le indagini preliminari e la custodia cautelare

Anticipiamo ampi stralci dell’intervento che Piero Tony terrà sabato 11 alle ore 12,30 a Cividale del Friuli, nell’ambito della seconda edizione di LexFest, kermesse nazionale dedicata alla giustizia e agli operatori del diritto e dell’informazione (10-11-12 marzo) nata da un’idea di Andrea Camaiora e organizzata dal team di comunicazione strategica SPIN per il comune di Cividale del Friuli. All’evento parteciperanno anche, tra gli altri: Francesco Giorgino, Bruno Campeis, Andrea Catizone, Antonello Racanelli, Tommaso Cerno, Stefano Balloch, Carlo Nordio, Philip Reeker, Alberto Matano, Francesco Petrelli, Francesco Bruno, Cosimo Ferri, Francesco Tufarelli, Francesco Specchia, Massimo Bordin, Antonio Leone, Elisabetta Casellati, Paolo Messa, Stefano Buccini, Giovanni Negri, Luca Bolognini, Matteo Benozzo, Giorgio Spaziani Testa.

 


 

Convegno sulla giustizia di qualche giorno fa a Bologna. I miei soliti argomenti: vergognosa lentezza del giudiziario in barba alla “ragionevole durata” pretesa dall’art. 111 della Costituzione; centralità fuorilegge delle indagini preliminari perché ancora in barba a quell’art. 326 cpp che le vorrebbe come minimo necessario per decidere se la notizia di reato va archiviata o invece verificata nella dialettica del processo; disinvoltura nell’applicazione delle misure cautelari comprovata dalla grandine di riparazioni per ingiusta detenzione, 25.000 dal 1992 quindi 1.000 all’anno ossia 3 al giorno; le giornalate mattutine con titoli bignè a crocifissione e colpo di grazia sul povero indagato di turno presunto non colpevole; l’intollerabilità di un processo accusatorio con pm e giudice in carriere non separate, etc etc etc. Insomma quella che potrebbe definirsi la solita tiritera se non si stesse parlando della vita delle persone. Era presente anche il generale Mario Mori, aplomb e simpatia incommensurabili. Dopo essersi presentato, tra gli applausi divertiti dei presenti, come imputato in servizio permanente effettivo ebbe a ricordare, a chi come me non ne avesse avuto memoria, di aver sempre preteso una sentenza nel merito, tanto da aver rinunciato nel passato e voler rinunciare per il futuro all’eventuale sopravvenuta prescrizione. Per parte mia non potetti fare a meno di accennare anche alla esiziale centralità delle indagini e allo strapotere delle misure cautelari, argomenti che oggi – con quel che sta succedendo – mi pare opportuno riproporre e sviluppare. La prima sulla centralità delle indagini Quando anni fa mi permisi di scrivere che l’andazzo giudiziario si imperniava sempre di più sulle indagini preliminari, con buona pace per il giusto processo regolato dall’art. 111 della Costituzione, fui oggetto di fatwue da parte dell’Anm, di vario genere ma tutte furiose . Ma cosa dici, ma come ti permetti?!?! Oggi ormai tutti – o quasi – convengono nell’additare la centralità delle indagini preliminari come prima causa delle disfunzioni della giustizia e, quel che meno non conta, dell’insicurezza esistenziale dei cittadini. Lo hanno ripetuto i capi degli uffici giudiziari più importanti – primo tra tutti il presidente della Suprema corte – negli ultimi due anni, in occasione delle inaugurazioni dell’anno giudiziario, lo si ammette finalmente ad ogni piè sospinto negli ultimi consessi specialistici. Ma dire “centralità delle indagini preliminari” è troppo poco. Per non ciurlare nel manico corre l’obbligo di chiedersi: preliminari a cosa? Al decidere se archiviare o meno, come pensava il legislatore? Domanda rompicapo visto che per rispondere occorre far riferimento non alla norma scritta ma al cosiddetto diritto vivente, cioè al diritto così come applicato nella quotidianità giudiziaria secondo quelli che, qualche volta, possono essere solo criteri di ritenuta opportunità o praticità o realismo. Ciononostante non mi pèrito di sostenere che, nei fatti, oggi troppo spesso sono divenute preliminari a un processo che nella realtà esiste solo come apparato scenico, per cui sarebbe più ragionevole parlare di centralità non di indagini preventive ma di indagini non preventive in quanto sovente seguite dal nulla e quindi sostanzialmente definitive. Per colpa di chi? Per colpa della solita maledetta lentezza della giustizia che, di fatto, impedisce l’acquisizione delle prove in un dibattimento lontano anni-luce dalla commissione del reato. Come mai? Per l’elementare e stranoto motivo che lo scorrere del tempo usura tanto irrimediabilmente qualsiasi ricordo da ben giustificare lo sguardo allocchito di chi dopo anni si sente interrogare su fatti ormai persi nella nebbia del passato. Lentezza a fronte della quale la costituzione materiale e il diritto vivente hanno però realisticamente imposto un sicuro rimedio mediante il pervasivo principio della non dispersione dei mezzi di prova. Principio mai scritto né in qualsiasi altra maniera formalizzato dal potere legislativo ma scovato, all’uopo, tra i precordi di qualche norma legata alla ragionevolezza ed alle necessità accertative e decisionali (“fine primario ed ineludibile del processo penale è la ricerca della verità “- sent. Corte Cost. n.255 del 3giugno 1992 ). Principio… quasi norcino, del “non si butta via nulla”. Confusione tra progetto e avvenuta esecuzione. Principio che sostanzialmente consente l’utilizzazione, come vere e proprie prove, di quei mezzi di prova che dell’acquisizione delle prove avrebbero dovuto rappresentare – per legge – solo preannuncio o prefazione. Consente l’utilizzazione sempre e comunque, mediante i meccanismi delle contestazioni e letture (artt. 500, 501, 503, 511, 511bis, 512, 512bis, 513 e 515 cpp) di tutto quello che è stato detto e scritto nella risalente fase delle indagini. E’ molto grave. Grave perché, così come con gli ostacoli frapposti alla separazione delle carriere, vengono in tal modo disattesi i fondamentali del processo accusatorio. Me ne dolgo per formali questioni di principio? Anche. […] Non è giusto far finta di nulla quando percepisci alcuni indicatori di rischio per una funzione essenziale come quella giurisdizionale, o quando constati che una norma costituzionale di importanza vitale quale l’art. 111, introdotta quasi a furor di popolo, non da uno ma da quasi 18 anni trepida in panchina riscaldandosi inutilmente i muscoli. O quando assisti ai mediaspettacoli circensi di questi giorni, ormai tanto spudorati da aver costretto i poveri magistrati a dissociarsi, nel rovente delle indagini, con il ritiro delle deleghe al nucleo operativo della polizia giudiziaria che stava investigando. Lo ammetto, sono preoccupato prima di tutto perché non posso trascurare la differente specificità professionale: tutti i magistrati devono ragionare solo in termini di regole processuali e di indizi se non di prove mentre la polizia giudiziaria – siccome è raro che gli indizi cadano dal cielo – almeno nelle prime battute deve cercarli esplorando con decisione i rischiosi sentieri del sospetto. Con l’altrettanto rischioso corollario che è sempre duro sconfessare i risultati raggiunti e che dai sospetti non ci si può difendere. Poi per una mia radicale diffidenza verso quelle “certezze morali” che troppo spesso, nella fase non garantita delle indagini e dunque dietro le quinte del segreto d’obbligo (art.329 cpp) , hanno innescato e sorretto – e possono tranquillamente continuare a farlo – il corso di procedimenti senza capo né coda; qualche volta con l’alibi, come non bastasse, che l’indagine più è vasta e complessa e meno è gestibile da un magistrato sia pure organizzato in pool. Le cronache giudiziarie sono fitte di resoconti su tali procedimenti mostruosi e crocifiggenti durati anni, nati con un bluff e conclusisi con un flop, la lista sarebbe interminabile ed è possibile solo un accenno: da Enzo Tortora, Corrado Carnevale, Giuseppe Gullotta, Hasci Hassan a Ilaria Capua, Paolo Macchiarini, Graziano Cioni etc. etc. etc. E ancora. Batto e ribatto per ricordare ed evidenziare – sottolineandolo in rosso vivo, visto che non viene mai detto chiaramente – che possiamo tranquillamente concludere che la lamentata “centralità”, ormai da tutti ammessa, attiene il più delle volte – per quanto detto prima – non alle indagini preliminari tout court bensì, nella sostanza, a quelle di polizia giudiziaria. E anche per ricordare che, se le cose restano così, quel dibattimento che nelle intenzioni sarebbe dovuto divenire il cuore pulsante del procedimento continuerà a costituire spesso solo una paludata rappresentazione teatrale su testo scritto dalla polizia giudiziaria. Con la conseguenza che qualcuno potrebbe parlare, in uno Stato di diritto come il nostro, di processo di polizia. Il che – fermo restando il principio di mia nonna, che le posate d’argento non si buttano nel fiume per paura che le rubino – non è poca cosa anzi è davvero inaccettabile sol che si rifletta: 1) nei confronti della polizia giudiziaria non opera – come invece per il pm – il perentorio obbligo di investigare anche su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini (art. 358 cpp ); né compete alla polizia giudiziaria il chiedersi, in linea con quanto dispone l’art.125 disp. att. cpp, se / quanto siano utili gli atti compiuti e quelli da compiere; 2) le sempre più frequenti indagini fuorilegge, fuorilegge perché in streaming con i media – per ragioni non dipendenti dalla disinvoltura di qualche magistrato, almeno ufficialmente – ed il conseguente fuoco di paglia sull’opinione pubblica possono non solo massacrare immediatamente la vita degli interessati ma anche annichilire irrimediabilmente qualsiasi possibilità di un futuro giusto processo; 3) vista la sempre maggiore contiguità professionale tra requirenti e polizia giudiziaria e visto che finora non sono state separate le carriere dei magistrati, potrebbe perniciosamente operare, e chissà da quando e per quanto, la subdola legge dei vasi comunicanti, vero tarlo per la giurisdizione; 4) stando così le cose, meriterebbero anche di non essere sottovalutate quelle impunite norme che, dal 2010 (art. 237 del DPR n. 90/2010) e poi dal ferragosto 2016 (art. 18 c.5 del D.L.vo n. 177/2016), impongono sostanzialmente alle forze di polizia di infischiarsene della legge perché le obbligano a trasmettere alla scala gerarchica i rapporti inviati alla magistratura… udite udite… “indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale”. Ecco perché assieme a tanti altri mi auguro da anni che un allenatore con idee chiare tolga dalla panchina e faccia scendere in campo, finalmente, quel benedetto art. 111 sul giusto processo. La seconda considerazione, sulla misura della custodia cautelare in carcere La premessa: sono convinto che molti resterebbero fortemente indecisi, proprio come l’asino di Buridano, se fossero obbligati a scegliere tra un malaccio incurabile e l’essere ammanettati e portati in gabbia – ossia in carcere – con quel che consegue. E li capisco, perché in tale ultimo caso è alienazione per sempre, chiunque tu possa essere in un batter d’ali perdi libertà reputazione dignità ed autonomia, si interrompono le relazioni con famigliari amici e colleghi di lavoro e, non è retorico, almeno per un po’ cessi di essere persona per diventare oggetto a disposizione del funzionamento dell’apparato giustizia. La custodia cautelare in carcere è cosa orribile in quanto – privilegiando la punizione rispetto alla vita - cozza fino alle scintille con la presunzione di innocenza. Perché si tratta, se non ci si vuol nascondere dietro il famoso dito, del sacrificio di un innocente – gratta gratta tale è il “presunto non colpevole” – sull’altare di quell’interesse punitivo dello Stato che è una delle colonne della sicurezza di qualsiasi comunità. La tragedia: è cosa orribile ma qualche volta irrinunciabile, soprattutto per colpa della lentezza della giustizia. Irrinunciabile allo stato delle cose, ovviamente, visto che non c’è chi non veda che, tra cent’anni, la comunità potrà permettersi di sostituire dispendiosamente la gabbia con un’adeguata, diretta e continua sorveglianza nel contesto di vita dell’indagato. Vista la premessa, vista la delicatezza degli interessi coinvolti e visto che non se ne può fare a meno, mi parrebbe necessario che la sua applicazione fosse almeno ridotta al minimo necessario, come d’altra parte è previsto dalla legge, anche per evitare 3 riparazioni per ingiusta detenzione al giorno – basta fare i conti su quei 25.000 indicati all’inizio, che sono al netto delle richieste dichiarate inammissibili, sia chiaro – che esorbitano da qualsiasi fisiologia di giustizia. Volesse il cielo che oggi fosse ridotta al minimo, che non si sacrificassero qualche volta diritti sommi per “ragioni di bottega”. Che – sia pure con buone intenzioni – non la si utilizzasse per fare pressioni troppo spesso solo fuorvianti. Che sull’aìre dell’indignazione pubblica – sia pure per gravi misfatti – non si pensasse di anticipare la pena per ovviare alla lentezza del procedimento. Che non la si vedesse come unica possibile reazione per i reati intrarelazionali quali maltrattamenti in famiglia (art. 572 cp) e atti persecutori (art. 612bis cp), che meriterebbero non di essere in tal modo attizzati ma trattati nelle loro cause, in prima battuta naturalmente – come ormai dappertutto nel mondo civile – con adeguati interventi mediatori. Volesse il cielo! Il contesto normativo è conosciuto probabilmente da tutti ma lo riassumo per sommi capi: nonostante la nota presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost. il codice come è noto prevede che, in circostanze eccezionali, a tutela di interessi superiori il presunto non colpevole possa essere ristretto cautelarmente in carcere. L’eccezionalità delle circostanze non è solo quella del criminale che, indifferente all’incolumità altrui, gira per le strade con mannaia o pistola pronto a reiterare condotte aggressive. La legge – naturalmente ove ricorrano gravi indizi di colpevolezza, in subiecta materia basta una non meglio precisata “probabilità qualificata” – la individua del tutto genericamente, per i delitti puniti con pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni e per il reato di finanziamento illecito dei partiti e per chi ha trasgredito le prescrizioni inerenti ad altre misure cautelari meno afflittive, nella sussistenza di esigenze cautelari. Raccomanda anche, molto opportunamente, che nella scelta della misura da applicare si tenga conto del grado delle esigenze cautelari nonché dell’entità del fatto. A mio parere dovrebbero balzare subito agli occhi almeno due grandi assenze: nessun cenno alla necessità che il presunto non colpevole possa dare la sua versione – sia pure… rispettosamente – prima che la vita gli venga falcidiata per sempre né alcun cenno ad una valutazione della sua persona (se non in relazioni a limiti – ma è irrilevante per il presente discorso – legati alla tarda età, a gravi malattie o al maternage). Nessun cenno, nonostante che l’ essere improvvisamente deprivato di qualsiasi relazione e rinchiuso in gabbia – nella sostanza di questo si tratta – sia trauma che spesso devasta per sempre il diritto di vivere, malgrado sia lutto tanto profondo da essere difficilmente elaborabile, come dicono i tecnici della psiche. […] La custodia cautelare in carcere andrebbe manovrata – con l’attuale assetto normativo – solo nei casi estremi, proprio come un farmaco salvavita o una scialuppa di salvataggio. […] Ma amo vivere di speranze e vagheggiare Sarebbe bello, che a parte quella pressoché automatica conseguente ad arresto e fermo, la custodia in carcere venisse davvero applicata, come peraltro prevede il codice vigente (art. 275 c. 3 cpp), solo e soltanto quando tutte le altre misure risultassero inadeguate, magari con quella empatia – mutatis mutandis ed absit iniuria verbis – così bene analizzata da Carl Rogers, Hanna Arendt ed altri. Sarebbe bello che tra le misure cautelari il legislatore prevedesse, generalizzandole, prescrizioni analoghe a quelle già previste dagli artt. 282bis e ter cpp a proposito della violenza familiare, nonché 20 del DPR n.448/1988. Sarebbe bello che l’interrogatorio preventivo previsto dall’art. 289 cpp venisse esteso a tutte le misure cautelari. E sarebbe addirittura magnifico che, quanto ai criteri di scelta di qualsiasi misura da applicare, l’art.275 cpp venisse integrato. Nel senso che la misura richiesta – fermo restando il vigente aggravamento in caso di inottemperanza ( art.280 c.3 cpp) – potrebbe essere proporzionata non solo all’entità del fatto ed alla prevedibile sanzione – come già previsto – ma, anche per evitare per quanto possibile evidenti danni sociali, “ragionevolmente contemperata agli interessi di integrazione famiglia lavoro e studio, delle parti e dei loro prossimi congiunti”. Solo che ora mi sorge un atroce dubbio… sogno o son desto? 

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