Piercamillo Davigo (foto LaPresse)

Lo strano senso di Davigo per la politica

Ermes Antonucci

Il numero uno della Anm critica Michele Emiliano: "I magistrati non devono mai fare politica". Ma lui, pur non iscritto ad alcun partito, sono anni che la fa

“Sono dell’opinione che i magistrati non debbano fare politica mai”. A dirlo, in maniera molto tranchant, è stato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, intervenendo martedì sera alla trasmissione DiMartedì su La7. Il riferimento era al caso che sta coinvolgendo il governatore pugliese Michele Emiliano, frutto prevedibile dell’anomalo groviglio tutto italiano tra magistratura e politica, dove nella stessa persona (Emiliano) troviamo riunite le figure di magistrato, di candidato alle primarie di un partito politico (il Pd) e di testimone di un processo in cui è coinvolto il padre dell’ex presidente del Consiglio (vicenda Consip). Dunque, parlando del caso Emiliano, Davigo ha sbarrato la strada a ogni sconfinamento della magistratura in politica. E lo ha fatto non celando un certo senso di superiorità, come se i magistrati oggi possano fare politica solo se iscritti a un partito e come se lui spesso non avesse svolto attività sostanzialmente qualificabile come “politica”.

 

 

Ci pare, infatti, che il presidente dell’Anm, pur non essendo iscritto a un partito, la politica – in senso lato e in forme diverse da quelle partitiche – la faccia da un pezzo. Non è politica dire, come ha fatto Davigo due minuti prima di lanciare il proclama anti-Emiliano, che la rottamazione delle cartelle esattoriali alla quale starebbe pensando il governo, nella sua piena autonomia di scelta di politica economica, “è una vergogna”? Non è politica negoziare per mesi con il governo per convincerlo a cambiare la legge sul pensionamento dei magistrati, tanto da minacciare il blocco delle aule di giustizia e disertando l’inaugurazione dell’anno giudiziario? Non è politica invocare l’introduzione per la lotta alla corruzione di “alcune norme che valgono per i mafiosi” (13 febbraio)? Non è politica chiedere di anticipare a prima del referendum costituzionale la discussione parlamentare sulla riforma penale (8 novembre)? Non è politica dire che “le nostre leggi sono fatte apposta per poter salvare i colletti bianchi” (7 novembre)? Non è politica dire che “se la riforma della giustizia viene approvata così com’è con un voto di fiducia per noi non va bene, aggrava i problemi e non li risolve”, se cambia “possiamo discutere” (2 ottobre)? Non è politica affermare che “la riforma della giustizia è inutile, se non dannosa” (25 settembre)? Non è politica dichiarare che “le leggi che aumentano le pene senza sapere a chi darle sono inutili” (19 giugno)? Non è politica dire che “è inutile la legge su chi segnala i reati nella Pubblica amministrazione” (17 giugno)? O descrivere il nuovo codice degli appalti come “tutta roba che non serve a niente” (10 giugno)? O affermare di “non vedere la necessità di una legge sulle intercettazioni” (20 aprile)? O sostenere che non serve una riforma della disciplina sulle intercettazioni perché “basta aumentare le pene per la diffamazione, il resto è superfluo” (10 aprile)? Non rappresenta uno sconfinamento nella politica per un magistrato dichiarare pubblicamente, pochi giorni dopo essere stato eletto alla guida dell’Anm, che a distanza di oltre due decenni da Mani pulite “i politici continuano a rubare, ma non si vergognano più” (21 aprile)?

 

La verità è che un magistrato può fare politica in tanti modi e l’iscrizione a un partito è solo la via di sconfinamento più evidente. In fondo, non erano iscritti a partiti i magistrati della corrente di Magistratura democratica che diversi mesi prima del referendum costituzionale decidevano di aderire e cavalcare pubblicamente la campagna per il “No”, con tanto di manifesto in cui veniva definita come “autoritaria” la riforma voluta dal governo Renzi.

 

Ciò vuol dire che un magistrato non può in alcun modo intervenire pubblicamente per fornire la propria opinione su tematiche di interesse generale? Nessuno sta dicendo questo. L’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio ha indossato la toga per quarant’anni, commentando spesso – e nell’ultimo periodo con buona frequenza, tanto da diventare quasi “editorialista” di un giornale nazionale – i fatti e le questioni di attualità (dal terrorismo alle forme di repressione penale), ma lo ha fatto sempre con la discrezione e la sobrietà che il rilievo pubblico della funzione di magistrato dovrebbe imporre. E senza mai mostrare simpatie o iscriversi a questo o quel partito, ma anzi ribadendo fino all’ultimo – anche nell’intervista al nostro giornale pubblicata lo scorso 7 febbraio – la sua assoluta contrarietà a ingressi in politica da parte dei magistrati persino dopo il loro pensionamento.

 

È comprensibile, va ammesso, che una simile riflessione sull’esigenza di un atteggiamento di self restraint da parte dei magistrati, fatichi ad affermarsi nel nostro paese. Dopotutto, sono passate quasi inosservate le dichiarazioni espresse dalla deputata-magistrata Donatella Ferranti nei confronti dello stesso Emiliano (“Scelga: o il partito o la toga”), lei che non solo è una toga eletta con il Pd, ma presiede la commissione Giustizia della Camera. Quella chiamata, invano, ad esaminare da due anni una proposta di legge sulla candidabilità e l’eleggibilità dei magistrati in occasione delle elezioni politiche.

Di più su questi argomenti: