Matteo Renzi (foto LaPresse)

Gentismo, malattia infantile del populismo (e del Pd)

David Allegranti

Il Pd fa propri i “frame” del M5s, proprio come per anni hanno fatto i progressisti americani con l’agenda politica dei conservatori

Roma. Il gentismo, malattia infantile del populismo, è tutto intorno a noi. Ormai ha colpito pure Matteo Renzi, fra il taglio alle poltrone e ai politici in campagna elettorale per il referendum e il “lavoro di cittadinanza” di oggi. L’ex segretario del Pd prende in prestito pure slogan storici del M5s: ieri su Instagram ha pubblicato una foto con la tessera del Pd appena rinnovata e annesso hashatg, inevitabilmente seguito da faccina sorridente, #unovaleuno, per testimoniare che il suo partito è l’unico in cui si pratica davvero la democrazia interna. Ora, ce lo vedreste voi Beppe Grillo a dire che il vento non si ferma con le mani? Ma il caudillo Michele Emiliano riesce ancora una volta, quanto a populismo, a fare meglio dei concorrenti. “Sono per la eliminazione totale degli stipendi dei politici. Li vorrei eliminare completamente. Nella Costituzione cubana è previsto”, dice il presidente della regione Puglia, recuperando una proposta che aveva già fatto a settembre, quando ancora non era candidato alla segreteria del Pd ma probabilmente già ci pensava: “Molti politici hanno un loro lavoro e quindi possono permettersi di fare politica gratis, senza percepire stipendi”, diceva mesi fa. Il partito dello scontrino insomma è ormai maggioritario, tant’è che da giorni si parla solo di vitalizi e Alessandro Di Battista dice bischerate a facebook unificati, facendo breccia in internet: “C’è chi non vuole votare perché aspetta il 15 settembre per maturare l’ennesimo privilegio: una grande pensione anticipata”, dice Dibba. E’ una fake news, naturalmente, perché la pensione per i parlamentari, calcolata con il sistema contributivo, arriva a partire dal 65esimo anno di età.

 

I soldi, come il sesso e il sangue, hanno un aspetto morboso che attira la gggente; la fa indignare anche quando c’è poco di cui indignarsi (oppure quando si indigna per il motivo sbagliato). L’idea che si debba fare politica gratis apre le porte al pauperismo e al ritorno dei notabili. Eppure, avvertiva già Max Weber ne “La politica come professione”, “un reclutamento non plutocratico del personale politico, dei dirigenti e dei loro seguaci, è legato all’ovvio presupposto che dall’esercizio della politica provengano a questi politici dei redditi regolari e sicuri. La politica può essere esercitata o ‘a titolo onorifico’, e quindi da persone, come si è soliti dire, ‘indipendenti’, cioè benestanti, soprattutto in possesso di rendite; oppure il suo esercizio viene reso accessibile a persone prive di beni, che quindi debbono ricevere un compenso. Il politico che vive della politica può essere un puro ‘percettore di prebende’ o un ‘impiegato’ retribuito”.

 

Il Pd si è fatto contaminare dal gentismo, ed è un problema. Anziché rivendicare che la politica e la democrazia hanno un costo e dire che non tutto ciò che viene speso per le amministrazioni pubbliche è spreco, anziché imporsi perché tutti i soldi siano ben spesi (che è diverso dall’invocare tagli indiscriminati per tutti, a partire dagli stipendi dei politici, come dice Emiliano), il Pd fa propri i “frame” dell’avversario, proprio come per anni hanno fatto i progressisti americani con l’agenda politica dei conservatori. Ne scrisse George Lakoff nel suo celebre “Don’t think of an elephant!”, in Italia pubblicato da Fusi Orari con il titolo di “Non pensare all’elefante!”. I frame, secondo Lakoff, servono a categorizzare la realtà. Se qualcuno vi parla di un ospedale, voi penserete a medici, infermieri, bisturi, letti, pazienti, magari vi verrà pure in mente una brutta esperienza che avete avuto. Però tutto avrà un ordine preciso; penserete per esempio a medici che operano pazienti, non a pazienti che operano medici. Lo stesso avviene in politica, dove il framing è la capacità di orientare una discussione pubblica attraverso parole e concetti che servono a imporre la propria agenda, attraverso anche, e non solo, manipolazioni. Il framing in politica non è appunto sola manipolazione, serve a dare un taglio alla realtà. Il frame imposto dal M5s sono i soldi e così come l’elefante di Lakoff cui non dovremmo pensare – uno non vorrebbe pensarci, ma poi gli viene in mente proprio quell’animale con la proboscide – al Pd ora vengono in mente i quattrini. Un po’ come  il cane di Pavlov che iniziava a salivare quando sentiva la campanella.

 

“In politica – scrive  Lakoff – vince chi costringe gli avversari a giocare sul proprio terreno. Vince chi mette i propri rivali nelle condizioni di mostrarsi all’elettore come una comparsa insignificante nel frame creato da chi tiene il pallino in mano. Usare bene i frame significa dettare l’agenda politica, significa costringere l’avversario a giocare sempre con regole scritte da te e significa riuscire a far discutere i tuoi rivali degli argomenti che tu in teoria padroneggi meglio di chiunque altro”. Tra “lavoro di cittadinanza”, “vitalizi” che non lo erano e tagli a “stipendi e poltrone”, possiamo dire che il M5s sta stravincendo con la sua egemonia culturale.

David Allegranti

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  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.