Beppe Grillo (foto LaPresse)

Poveracciopoli

Salvatore Merlo

Pensioni d’oro e stipendi Rai. Pd e FI gareggiano con Grillo a chi liscia meglio il senso comune. Aiuto!

Roma. Adesso litigano tra loro per stabilire di chi sia l’ideona originaria, a chi insomma appartenga il distillato della purezza più pura, in questa dolente e a tratti violenta processione di pentiti della diaria, di redenti della pensione, di vendicatori del privilegio (proprio e altrui). E allora a Montecitorio Luigi Di Maio sventola un foglio di carta A4 davanti ai fotografi: “Basta vitalizio. Noi domani andiamo da Boldrini e Grasso”, dice il candidato premier del M5s, con tono grave. “Chiederemo di convocare un ufficio di presidenza per abolire questo privilegio insopportabile”, insiste, con l’aria di raddrizzatore dei torti. “E’ sufficiente una delibera!”.

 

Passano nemmeno dieci minuti e arriva la replica del Pd. “Sono chiacchiere, tutte chiacchiere”, si fa sentire Alessia Morani, che nella segreteria di Matteo Renzi aveva un suo ruolo di responsabilità e visibilità. “Siamo noi che vogliamo rivedere le pensioni dei parlamentari”, dice con tono di aperta rivendicazione. “E non solo dei parlamentari”, specifica. “Ma anche dei consiglieri regionali”, perdinci! “Noi vogliamo di più”, poffarbacco! E poiché il crescendo è surreale e stucchevole, soprattutto esibito, s’intuisce che doveva avere proprio ragione George Bernard Shaw quando sosteneva che la politica consiste, all’incirca, nell’organizzare l’idolatria. E davvero sembra che i politici italiani abbiano deciso di beatificare e innalzare una specie di nuovo culto della povertà, a metà tra l’etica e la predica, una cosa abbastanza indigesta e fasulla, una mappazza che se non avesse anche tratti di recitazione da telenovela venezuelana – i vitalizi non esistono più dal 2012, come sa bene Elsa Fornero che chiese al Parlamento di cancellarli – andrebbe invece presa terribilmente sul serio. Incarna infatti ogni suppurazione dei tempi. “Bisogna tagliare anche gli stipendi dei conduttori Rai”, dunque di Carlo Conti e di Massimo Giletti, di Fabio Fazio e di Fabrizio Frizzi, urla da settimane Renato Brunetta, in buona compagnia, con Michele Anzaldi (Pd), e ovviamente Roberto Fico (M5s). Tutti devono soffrire. E versare un obolo alla causa dell’impoverimento collettivo.

  

E si capisce che su questa trovata si gioca anche una parte della campagna elettorale che scandirà, tra urla di tifosi twittaroli e sbadigli di spettatori annoiati, la triste parabola finale di questa legislatura, con il Pd, e pure Forza Italia, che s’infilano spensieratamente nell’imbuto del populismo senza briglia – Renzi che adotta una specie di reddito di cittadinanza, come quello di Grillo (ma pure di Brunetta) – una gara canora a chi la spara più grossa, una strada forse senza ritorno (che Renzi ha già costeggiato, e perdendo, ai tempi del referendum che tagliava “i costi della politica”), un percorso costellato d’una retorica formidabile, che non contempla il dubbio e non conosce sfumature, perché al netto di pochi kamikaze, è difficile, anzi impossibile dire che le pensioni dei parlamentari sono una cosa sacrosanta, e sono già state riformate. “Ma noi vogliamo colpire il pregresso”, rispondono. E dunque persino il lecito si tramuta in abuso. Come pure, travolti dal poveraccismo, è impossibile spiegare senza incorrere nel bau bau e nello spernacchiamento – operazione, si è visto, impraticabile anche per il direttore generale, Antonio Campo Dall’Orto – che la Rai è, sì, un’azienda pubblica, ma anche un’azienda che sta sul mercato, che vive di pubblicità e di concorrenza, un’emittente che mantiene i suoi quasi tredicimila dipendenti con gli introiti che derivano dallo share: e senza volti televisivi di richiamo – quelli che si pagano – lo share si abbassa.

 

Ma in questo Parlamento che flagella se stesso, e recita l’abbandono delle cose del mondo (ma con un certo miglior mirare proprio alle cose del mondo: seguire il vento, e farsi trasportare lì dove porta il consenso belluino), la subcultura della “Casta” – intesa come totemico libro di Stella e Rizzo – ha sfondato definitivamente, persino più che nella pigrizia dei giornali, con tutti quei riflessi condizionati che non sono più buon senso ma pericoloso senso comune, per cui se uno ha uno staff questo diventa subito “mega”, come l’auto diventa “blu”, il rimborso “iper”, la previdenza “ultra”, la pensione “d’oro”, l’appartamento “deluxe”… Così il nuovo modello politico va scalcinato e vociante, con una vanità anche estetica da redentore dei torti. “Vogliamo uniformare le pensioni dei parlamentari a quelle di tutti quanti. Pd ci stai?”, diceva ieri Alessandro Di Battista, ben sapendo che il Pd lo seguirà a ruota, lui che si immagina come un viandante frugale, una specie di Dennis Hopper sulla moto di “Easy Rider”. E allora vale forse la pena di ricordare la saggezza castale, appunto, del Cardinal Siri, quando protestava con Pio XII che aveva abolito lo sfarzoso strascico delle vesti cardinalizie, “come principe della chiesa debbo tenere alta la mia dignità che è la dignità della chiesa stessa”. 

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.