Matteo Renzi (foto LaPresse)

Una sinistra senza catene. Finalmente

Claudio Cerasa

La rivoluzione riformista antidoto alla rivoluzione social-populista. Nella scissione del Pd forse c’è una buona notizia

C’entrano i personalismi, certo. C’entra l’odio antropologico. C’entra la differenza di linguaggi. C’entra il referendum. C’entra il proporzionale. C’entra il tema delle liste elettorali. C’entra il fatto che ciascun politico, come ammette Bersani, alla fine, per non invecchiare mai, tende sempre a rimanere fedele agli ideali di gioventù. Nella scissione ormai inevitabile del Pd, c’entra tutto questo. Ma per capire bene di cosa stiamo parlando, e comprendere senza annoiarci con il politicismo le ragioni che hanno portato alla frattura del principale partito della sinistra italiana, bisogna fare un breve viaggio nel tempo e andare all’origine della divisione del campo progressista.

 

Tutto parte da una domanda, anzi da un’affermazione, contenuta in un famoso saggio – firmato Francesco Giavazzi e Alberto Alesina – che forse inconsapevolmente ha segnato il percorso del Pd dall’inizio della sua avventura: “Il liberismo è di sinistra”, scandalosamente senza punto interrogativo, e dunque è di sinistra combattere la povertà e non la ricchezza, è di sinistra provare a ridurre la diseguaglianza con maggiore apertura ai mercati, è di sinistra far emergere l’evasione fiscale abbassando le tasse e non trasformando l’Italia in uno stato di polizia, è di sinistra rendere i contratti più flessibili per creare nuovi posti di lavoro, è di sinistra combattere le rendite di posizione liberalizzando la concorrenza e promuovendo la competizione tra i soggetti di mercato, è di sinistra infine scommettere sulla produttività per far aumentare i salari dei lavoratori e rendere le aziende più efficienti.

 

In questi dieci anni, la linea del “liberismo è di sinistra” ha portato un pezzo di mondo progressista (e non solo) ad appoggiare il progetto innovativo di Veltroni nel 2007, a sostenere lo sforzo riformatore di Monti nel 2011, a vedere nell’ascesa di Renzi alla guida del Pd nel 2013 un possibile vaccino per curare l’immobilismo anti riformista mostrato dal Pd alle ultime politiche, quando Bersani – lo stesso che con simpatia oggi prova a spiegare la giusta ricetta per far risorgere la sinistra – portò il centrosinistra al punto più basso della sua storia moderna, facendo risorgere il centrodestra, regalando un terzo di paese al Movimento 5 stelle e incassando il 25 per cento dei consensi nazionali, ovvero il peggior risultato della storia della sinistra italiana dal 1963 a oggi.

 

Se è vero che la storia moderna ci dice che il mondo progressista (soprattutto in Italia) ha più bisogno di una rivoluzione riformista che di una rivoluzione socialista, è anche vero che la divisione del Pd offre un’opportunità concreta al suo futuro segretario: mettere in campo l’ultima rottamazione possibile, dando la possibilità alla sinistra riformista di liberarsi definitivamente dalle catene del post comunismo. Il passaggio non è semplice perché quasi mai le scissioni di un partito rafforzano uno dei partiti protagonisti della scissione ma il contesto politico in cui ci troviamo oggi è particolare e un soggetto politico che punta a declinare la vocazione maggioritaria affidandosi di più alla forza delle idee che agli schemi dell’algebra ha ancora la possibilità di pescare tra i tredici milioni – tra i quali non c’erano già gli elettori vicini alla minoranza scissionista del Pd – che il 4 dicembre hanno votato Sì al referendum costituzionale.

 

Per farlo, il futuro leader di un partito privo delle ultime catene della sinistra dovrà trasformare il metodo del Jobs Act nell’asse portante del nuovo progetto riformista, creando attorno al possibile polo della crescita e della produttività un consenso trasversale attraverso la declinazione di cinque concetti prioritari: sburocratizzare l’Italia, detassare l’Italia, efficientare l’Italia, liberalizzare l’Italia, smontare le rendite d’Italia. E’ una sfida difficile ma forse non impossibile, considerando il fatto che l’inerzia della politica e la divisione della sinistra, potrebbero portare Berlusconi a riavvicinarsi a Salvini, rendendo il centrodestra meno appetibile per tutti quegli elettori che considerano la deriva nazionalista, sovranista, protezionista, populista e anti europeista il principale dramma della politica moderna. Il progetto del partito della nazione è stato massacrato con il referendum costituzionale. Ma la possibilità che un domani nasca non un governo composto da cialtroni a cinque stelle e lepenisti padani ma un governo della nazione, tra forze politiche intenzionate a combattere la rivoluzione socialista e populista con una sana rivoluzione riformista, passa anche da qui: dalla dimostrazione che la sinistra libera dalle sue catene è una sinistra che può provare a migliorare il paese.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.