Antonio Ingroia (foto LaPresse)

Da Grasso a Ingroia, oltre alla mafia c'è sempre un mondo oscuro da svelare

Giuseppe Sottile

Da Mafia Capitale alla Trattativa, l’antimafia s’appanna, serve altro. Ecco i professionisti dell’Oltremafia

Dispiace dirlo, soprattutto per chi ci ha creduto veramente, ma l’antimafia non tira più. Non va più di moda, non è più glam. Ha perso lo smalto e ha perso soprattutto la credibilità. Pensate a tutti quelli che, a Roma, si sono armati di penna e trombone per cantare urbi et orbi le lodi di Mafia Capitale. Pensate agli editorialisti e ai cronisti che già vedevano la cupola sopra er Cupolone, le lupare dentro il Campidoglio, le coppole storte dentro ogni delegazione municipale. Pensate ai romanzieri, che finalmente vedevano specchiate dentro un fascicolo della procura le loro trame e le loro suburre. Pensate alla stampa straniera e a tutti quelli che, felici e boccaloni, c’erano cascati.  Che cosa resta di quella mafia? Nulla. Tutto azzerato, tutto archiviato: non era un’inchiesta ma una fiction, non era un processo ma una sceneggiatura, non era una realtà criminale ma un fumosissimo teorema. Che beffa per i professionisti dell’antimafia. Che smacco per tutte le Rosy Bindi, sempre pronte a spendersi, con i petti in fuori, per amplificare ogni sussurro inquisitorio, per conferire dignità politica a ogni sussulto manettaro, per alzare in quattro e quattr’otto i palchetti della gogna e macinare lassù carrettate di indiscrezioni e di intercettazioni, di linciaggi e di sputtanamenti.

 

Il crollo rovinoso della mastodontica inchiesta romana non è che l’ultimo capitolo di un mito che, ormai da qualche anno, non veleggia più trionfalmente verso gli esaltanti orizzonti di gloria. Nell’aula bunker di Palermo si affloscia, udienza dopo udienza, il monumentale processo sulla fantomatica Trattativa, cioè su quel patto scellerato tra pezzi dello Stato e i boss di Cosa nostra.

 

Mentre a Caltanissetta vengono a galla ogni giorno nuovi dettagli sulle nefandezze messe a segno da quella particolare cosca togata che faceva capo a Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale e regista di tutti i traccheggi che consentivano a lei e ai suoi compari di spolpare senza pudore i patrimoni sequestrati, in nome del popolo italiano, ai mafiosi e agli imprenditori che con i mafiosi avevano avuto comunque a che fare. Chi se la sente ancora di legare la propria militanza o il proprio destino agli oracoli provenienti dai palazzi di giustizia?

 

No, essere un professionista dell’antimafia di questi tempi proprio non conviene. Ed è per questo, probabilmente, che i più scaltri della compagnia vanno lentamente spostandosi verso una militanza più sofistica, capace di garantire nuovi traguardi ma senza il pericolo di contraccolpi improvvisi e devastanti. Tramontano i professionisti dell’antimafia e s’avanzano i professionisti dell’Oltremafia: quegli alti pensatori per i quali, oltre alla mafia, c’è sempre un mondo oscuro da disvelare, una inconfessabile verità da scoprire, una losca complicità da dipanare, un mandante occulto da smascherare, una misteriosa “entità” difficile da acciuffare perché, quasi certamente, vive nascosta e protetta dentro le istituzioni.

 

Di fronte all’antimafia che si appanna, il valore dell’Oltremafia diventa ancora più prezioso specie per chi vuole giocare quella carta sul banco sempre verde della politica. E per averne conferma basta leggere l’intervista concessa da Pietro Grasso, presidente del Senato, al Corriere della Sera: una conversazione nata per ricordare la sentenza di 25 anni fa con la quale la Corte di Cassazione rese definitive le condanne del maxiprocesso, quello istruito da Giovanni Falcone e che costò l’ergastolo a boss come Totò Riina, Bernardo Provenzano, Luciano Liggio, Leoluca Bagarella e altri trecento malacarne.

 

Grasso, che di quel maxiprocesso fu giudice a latere, di carriera ne ha fatta. E tanta. E’ stato procuratore capo di Palermo e poi procuratore nazionale antimafia. I mezzi per combattere efficacemente Cosa nostra non gli sono dunque mancati. E non gli è mancata neppure la possibilità di affinare nuovi strumenti legislativi perché nel 2013, quando era ancora a capo della procura nazionale, fu chiamato da Pier Luigi Bersani a candidarsi sotto il simbolo del Pd e le cose gli andarono, come si suole dire, benissimo: diventò, nel giro di un mese, senatore e subito dopo presidente del Senato.

 

Eppure – nonostante la sua storia sia di tutto rispetto e nonostante la sua carriera sia costellata di innegabili successi, come la cattura di Bernardo Provenzano, latitante da 43 anni – anche Pietro Grasso l’altro giorno, davanti al giornalista del Corriere, ha sentito il bisogno di iscriversi al promettente filone dell’Oltremafia. “Si intuisce – ha detto – che Cosa nostra possa essere stata il braccio armato di altri interessi: di una strategia politica di tipo economico legati agli appalti pubblici; o di entità deviate rispetto alle proprie funzioni istituzionali. Purtroppo non è stato possibile trovare le prove. Gli elementi per raggiungerle sono a conoscenza solo dei vertici dell’organizzazione, che non hanno collaborato con la giustizia. Né abbiamo avuto collaborazioni da altri settori, esterni a Cosa nostra”.

 

La caverna delle verità inafferrabili è profonda, profondissima. Ma Grasso, che in quarant’anni di onorata carriera ha pure avuto la possibilità di scandagliarla in lungo e in largo, dice che “non dobbiamo mai perdere la speranza di trovare la verità, e continuare a cercare”.

 

I cercatori di verità occulte somigliano tanto a cercatori d’oro. Perché l’oro, guarda caso, sta quasi sempre in quella terra di mezzo che dalle segrete stanze della procure porta fin dentro i palazzi della politica. Un percorso che affascina e che abbaglia. Ricordate Antonio Ingroia che, da procuratore aggiunto di Palermo, non ebbe più che cosa inventarsi e che cosa inventare pur di rendere sicura e inarrestabile la sua discesa in campo? S’inventò Massimo Ciancimino, spacciato per una “icona dell’antimafia” e poi naufragato nel mare merdoso delle bugie e delle  patacche; s’inventò la missione speciale in Guatemala, sotto l’egida dell’Onu, che durante la vigilia elettorale gli consentì di rilasciare interviste a raffica sulla Trattativa senza mai correre il rischio di violare il segreto istruttorio. E non si fece mancare nemmeno uno scontro con il Quirinale sull’opportunità di acquisire agli atti e di rendere di conseguenza pubblica la registrazione di certi colloqui che il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, aveva avuto con Nicola Mancino, l’ex ministro democristiano trascinato alla sbarra per falsa testimonianza.

 

No, essere semplici antimafiosi non è più sufficiente. Per conquistare le praterie della politica bisogna montare ogni giorno un teatro delle evanescenze e alzare sempre più il tiro dei sospetti. Fino all’Oltremafia. Allora è probabile che la politica corra verso di te. O per fermarti, o per offrirti come trofeo a un elettorato sempre bisognoso di nuove bandiere.

 

Soprattutto in Sicilia. Non è un caso che i professionisti dell’Oltremafia, con i loro arzigogoli e i loro ricami giudiziari, proliferino per la maggior parte dentro i tremori e i bollori di un’isola fiammeggiata dal sole. Quella è la terra del dire e del non dire, dell’essere e dell’apparire, degli uomini e dei mezzi uomini; e soprattutto delle domande alle quali si risponde con altre domande. “Qui si vive in pieno Seicento, col barocchismo, le raffinatezze e l’ignoranza di allora”: così scriveva Ippolito Nievo alla madre, Adele Marin, in una lettera spedita da Palermo il 24 giugno 1860. E ancora non aveva conosciuto né i professionisti dell’antimafia né quelli dell’Oltremafia.

  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.