Matteo Renzi (foto LaPresse)

La guerra dei settanta giorni

Claudio Cerasa

Dall’Europa all’Italia. Come funziona la tempesta perfetta che punta a disinnescare Renzi e il partito del voto

Il destino politico di Matteo Renzi, e del Partito democratico, si deciderà tutto nei prossimi settanta giorni e dipenderà da quattro passaggi che vale la pena fissare subito sul calendario: 27 febbraio, 31 marzo, 11 aprile, 11 giugno. La guerra che abbiamo cominciato a registrare in queste ore – lo scontro nel Pd, le minacce di scissione, l’attacco di Napolitano, l’affondo del ministro Calenda, l’assalto dell’establishment, il balletto sulla manovra correttiva che ha contribuito ad alimentare voci su un possibile restringimento della sovranità italiana in campo economico in caso di destabilizzazione del quadro politico – è solo l’antipasto di un assedio poderoso che si andrà a sviluppare nei prossimi giorni e che punta a dimostrare un fatto semplice: non solo che il voto anticipato rappresenta una sciagura per il paese, ma che Renzi in fondo sta facendo il gioco del Movimento 5 stelle. Secondo questa lettura, andare a votare subito non sarebbe la conseguenza naturale di una legislatura che ha perso il suo significato nel momento in cui diciannove milioni di italiani hanno bocciato la riforma che le aveva dato un senso, ma sarebbe un regalo fatto al Movimento 5 stelle, il quale potrebbe approfittare di questa finestra per tentare di arrivare al governo. La ragione per cui Napolitano ha sculacciato il segretario del Pd è anche questa: nel 2011, l’ex capo dello stato scelse di non andare a votare anche per paura del Movimento 5 stelle; nel 2014 scelse Renzi al posto di Letta per paura che l’immobilismo del governo del cacciavite potesse portare acqua al mulino dei grillini; nel 2016 ha bocciato il doppio turno dell’Italicum per paura che, come successo a Roma e a Torino, potesse avvantaggiarsene il M5s; nel 2017, ieri, ha bocciato il ritorno alle urne sempre con il pensiero alla possibile ondata populista.

 

 

Il ragionamento di Napolitano ha una sua cittadinanza ed è lo stesso che spinge una buona parte della classe dirigente italiana (da Giovanni Bazoli a Carlo De Benedetti, persino fino a Confindustria) a non voler votare a giugno (il sindaco di Milano, Beppe Sala, si è fatto a suo modo portavoce del pensiero della borghesia milanese, esplicitando, da renziano, la sua contrarietà ad andare a elezioni presto). Ma, come lo stesso Napolitano dovrebbe ricordare, esiste un solo modo per prosciugare da posizioni di governo il serbatoio del più grande partito anti sistema. E quel modo non è sfiancare il grillismo, ma sfidarlo con un grande progetto intorno al quale costruire un consenso alternativo a quello distruttivo dei partiti anti sistema. Nella guerra dei settanta giorni, la lettura politica di Napolitano verrà utilizzata da molti per fermare definitivamente la corsa di Renzi, ma al contrario di quello che si potrebbe credere la posizione dell’ex capo dello stato non coincide con quella dell’attuale presidente della Repubblica. Sergio Mattarella è consapevole – e ne parla diffusamente con i suoi collaboratori – della possibilità che il voto anticipato possa dare una chance ai 5 stelle per andare al governo (anche se il disastro romano, e la possibile fine politica di Virginia Raggi, dovrebbero essere la pietra tombale sull’affidabilità dei grillini al governo). Lo scenario del post voto è già chiaro al capo dello stato: se il M5s dovesse diventare il primo partito alla Camera, il capo dello stato non potrà che offrire al Movimento una chance per formare il governo.

 

In quel caso le informazioni raccolte da Mattarella suggeriscono che Grillo giocherà una carta per tentare di portare i grillini a Palazzo Chigi: cercare in Parlamento i voti dei sovranisti con un programma fatto di due punti; referendum sull’euro e limitazione all’ingresso degli immigrati in Italia. Nonostante questo, il presidente della Repubblica, almeno per il momento, non intende iscriversi al partito del 2018 a tutti i costi, perché sa bene che se il segretario del Pd dovesse riuscire a superare indenne la tempesta di sistema che si andrà a scatenare durante i prossimi settanta giorni non ci sarebbero alternative al voto. Il problema però è proprio questo: cosa deve succedere affinché Renzi realizzi il suo piano? Qui arriviamo alle quattro date: 27 febbraio, 31 marzo, 11 aprile, 11 giugno. Per votare l’11 giugno, obiettivo del partito del voto, le Camere andrebbero sciolte almeno con due mesi di anticipo. Due mesi di anticipo significa che entro l’11 aprile il segretario del Pd deve trovare un modo per far cadere il governo senza trasformare Paolo Gentiloni in un Enrico Letta. Per arrivare a questa data, il passaggio è obbligato e tutto si gioca, appunto, in settanta giorni: dal 27 febbraio all’11 aprile. Il 27 febbraio (manca meno di un mese) è il giorno in cui è stata calendarizzata alla Camera la discussione sulla legge elettorale. La legge prima dovrà passare in Commissione Affari Costituzionali, dove i numeri non sono preoccupanti per Renzi: su 22 deputati del Pd, solo in due sono in forse (Bersani e Lattuca) e alla fine (con i voti di Area Popolare e di altri alleati) non ci dovrebbero essere difficoltà a superare quota 26 parlamentari (soglia minima per approvare un testo in Commissione).

 

In caso contrario il piano di Renzi prevede una forzatura simile a quella utilizzata per l’Italicum: il passaggio in Commissione è necessario per votare in Aula la legge elettorale, ma in caso di melina il testo può essere portato in Aula senza dover aspettare il voto della Commissione. Se tutto filerà liscio, il 27 gennaio l’estensione al Senato dell’Italicum (che al momento resta la prima opzione, anche se ieri il ministro Delrio ha parlato di una legge con introduzione del premio di coalizione) arriverà alla Camera. Problema: la legge elettorale è una di quelle leggi per le quali è possibile richiedere alla Camera il voto segreto e se questa circostanza dovesse avverarsi a maggior ragione il segretario spingerà il governo a chiedere una fiducia tecnica sulla legge. Se la fiducia non ci sarà, la legislatura è finita e Gentiloni presenterà le sue dimissioni al presidente della Repubblica. Se la fiducia ci sarà, il testo passerà al Senato. Nel caso in cui, nel frattempo, la tempesta perfetta non avrà disarcionato Renzi dal cavallo del partito, i tempi oggi sono scritti nero su bianco: entro il 31 marzo la legge deve passare in Commissione al Senato ed essere approvata a Palazzo Madama.

 

Anche in questa occasione, come successo con l’Italicum, il governo chiederà la fiducia. Se la fiducia non ci sarà, Gentiloni andrà a dimettersi. Se la fiducia ci sarà, Gentiloni (che ieri ha voluto precisare che le parole consegnate da Calenda al Corriere, “votare presto è un rischio”, non esprimevano la linea del governo) andrà a dimettersi entro l’11 aprile, offrendo a Mattarella una spiegazione semplice: il mio governo è nato per fare la legge elettorale, e sia in presenza di una nuova legge sia in presenza di una impossibilità ad approvare una nuova legge il mio compito finisce qui. Lo schema di gioco è questo (e prevede anche le primarie, forse persino per la coalizione, intorno a marzo, e chissà se sarà sufficiente questo passaggio per evitare la scissione). E’ uno schema spericolato non privo di contraddizioni e non immune da rischi. Non ultimo il fatto che se si vuole andare a votare, bisogna poi trovare un modo per dimostrare di aver capito la lezione di questi mesi: il modo migliore per non battere i populisti è quello di scendere sullo stesso terreno pericoloso del populismo politico. Sempre che il partito del tutto tranne Renzi, dopo la vittoria del 4 dicembre, non riesca a vincere anche questa battaglia finale. Si decide tutto in settanta giorni. Preparate i popcorn.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.