L'aula di tribunale durante il processo Grandi Rischi (foto LaPresse)

Il rischio di rendere inutile la commissione Grandi Rischi

Stefano Cianciotta

Sotto il tallone di pm e procure, gli scienziati non si pronunciano più, manco si riuniscono. A che serve?

Roma. “Quando li interpello, gli scienziati rispondono in modo ipercautelativo: potrebbe essere, ma anche no. Pensano a cosa potrebbe dire un giudice penale”. Fu l’allora capo della Protezione civile Franco Gabrielli a mettere in dubbio nel 2014 l’utilità della commissione Grandi Rischi, l’organismo consultivo della Protezione civile, al centro del processo intentato nel 2011 dalla procura dell’Aquila con l’accusa di avere fornito “informazioni inesatte, incomplete e contraddittorie” alla popolazione, inducendola a comportamenti imprudenti a sei giorni dal sisma del 2009. La questione centrale del dibattimento, infatti, era la valutazione dell’eventuale condizionamento dei messaggi diffusi dagli esperti sui comportamenti delle persone che, rassicurate dalle affermazioni degli scienziati, preferirono secondo i magistrati restare nelle proprie abitazioni, dove trovarono la morte. Condannati in primo grado nel 2012, i sette componenti della commissione furono assolti, tranne l’allora vicecapo della Protezione civile Bernardo De Bernardinis, la cui condanna definitiva a due anni confermava che non ci può essere dissociazione tra l’analisi tecnica e come questa analisi viene comunicata e trasferita all’esterno. Sotto questo profilo il processo alla commissione Grandi Rischi è stato il primo grande atto d’accusa alla comunicazione di emergenza, tema che sempre di più sta diventando strategico per le organizzazioni pubbliche e le aziende private (si pensi al caso Thyssenkrupp), che devono confrontarsi con un sistema di relazioni e con una pubblica opinione cambiati radicalmente nell’ultimo decennio.

La prima reazione degli scienziati dopo la condanna furono le dimissioni di massa dei nuovi membri, nel frattempo nominati dal governo Berlusconi nel 2011, perché la sentenza, prima nel suo genere, era “incompatibile con un sereno ed efficace svolgimento dei compiti e col suo ruolo di alta consulenza nei confronti degli organi dello stato”. La lettera con la quale successivamente il premier Mario Monti chiedeva di “desistere dalle dimissioni” per “adempiere al dovere” fu considerata dagli scienziati “al limite dell’insulto”, perché l’incarico, oltre che volontario, è gratuito in quanto i membri percepiscono solo rimborsi di missione alla stregua dei dirigenti dello stato. Poi Palazzo Chigi svolse un’opera di ricucitura, offrendo due impegni: una tutela legale e una copertura assicurativa, impegni considerati allora adeguati per ritirare le dimissioni. Il premier Enrico Letta provvide in seguito a estendere le coperture, disponendo per la commissione la tutela dell’Avvocatura dello stato. Da allora, però, nonostante i tre miliardi di danni accertati ogni anno per gestire una media di trecento frane, alluvioni e altre calamità naturali, le sezioni relative al dissesto idrogeologico e ai trasporti della commissione Grandi Rischi si sono riunite pochissime volte (dal 2011 al 2014 addirittura solo due), disertando anche la seduta plenaria prevista per legge almeno una volta all’anno. E quelle che si riuniscono con frequenza sono frenate da un blocco psicologico, spaventate dalla scure del potere giudiziario. Senza serenità, quindi, la commissione preferisce prendere posizioni generiche, conservative, e anziché fornire pareri scientifici si rifugia in pareri burocratici. Che producono, però, tensione e caos nella pubblica opinione e negli amministratori locali, sui quali pende l’onere di adottare decisioni importanti proprio sulla base delle vaghe indicazioni della commissione.

La nota con la quale la commissione Grandi Rischi ha ipotizzato alcuni giorni fa nuove scosse di magnitudo 6-7, arrivando addirittura per bocca del suo presidente Sergio Bertolucci a comparare la possibile crisi della diga di Campotosto in Abruzzo con quella del Vajont, non pone solo degli interrogativi sulla strategia e sulla competenza con la quale viene gestita la comunicazione di emergenza in Italia, ma anche sulla utilità della commissione stessa. Che senso ha mantenere in vita un organismo che sceglie deliberatamente di non decidere? Quale potrà essere il suo apporto in termini di proposte, considerato che è ormai acclarato che non prenderà mai una posizione chiara e netta su un tema, ma resterà in superficie, venendo meno così alla sua natura consultiva e lasciando ai sindaci e agli amministratori locali la responsabilità di adottare decisioni? Un deputato abruzzese di Scelta civica, Giulio Sottanelli, ha chiesto al premier Paolo Gentiloni di procedere alle dimissioni del presidente Bertolucci, ma la soluzione sembra più che altro un palliativo per la pancia della pubblica opinione abruzzese, fiaccata dalla sequenza incredibile di tragedie che nelle ultime settimane hanno fatto tornare alla mente il terribile terremoto dell’aprile 2009. Molti sindaci di Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria hanno scritto a Gentiloni comunicando che non riapriranno più le scuole ad oltranza.

Insomma chi si prende la responsabilità di rimettere in moto le regioni dell’Italia centrale? C’è qualcuno pronto a farsi carico di questa emergenza? In questa area del paese, soprattutto a causa del black-out dell’istruzione e della fuga verso le città della costa, l’economia dell’interno – già precaria – rischia di implodere. A questo punto, quindi, c’è un problema di opportunità a lasciare in esercizio un organismo che non produrrà nulla, salvo procedere a determinare inutili allarmismi. Due quindi sono le soluzioni sul campo: o Palazzo Chigi individua una sorta di ombrello, uno strumento di protezione giuridica che consenta alla commissione di operare in una sorta di area extra legem (soluzione difficilmente praticabile perché il provvedimento sarebbe passibile di eccezione di costituzionalità) oppure la commissione va sciolta perché allo stato attuale ogni sua presa di posizione crea solo sconcerto e danni. Sarebbe, però, l’ennesima sconfitta della politica ad opera della magistratura, che nel frattempo è riuscita a rendere inerme e incapace un organismo consultivo dello stato, e a creare pericolosi conflitti di responsabilità nelle già deboli istituzioni italiane.