Il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia e Nichi Vendola (Foto LaPresse)

Quale è la sinistra?

Salvatore Merlo

Vendola contro Pisapia, che è contro D’Alema che è contro Bersani, che sono contro Fassina

Quando la vita, il caso o la politica mandano la sinistra in riflessione, orizzonti immensi si aprono. E allora Nichi Vendola vuole rifare la sinistra, dunque manda garbatamente a quel paese il suo vecchio compagno di partito, e di scorribande arancioni, cioè Giuliano Pisapia, che anche lui la vuole rifare questa benedetta sinistra sconfitta e violata, ma prima bisogna intendersi bene sui termini (ché quelli di Pisapia “sono sbagliati”, dice Vendola, poiché “la sinistra deve ripartire dal Papa”). Figurarsi se alla sinistra non piace una discussione sul futuro della sinistra, e che sia ampia, polifonica e lacerante. E allora che si fa? Come si spiega? Chi ci porta? Chi siamo? Dove andiamo? Quanti siamo?

 

Da tutti i giornali, i salotti televisivi, i blog, le vallate, le gelaterie e i giardini della sinistra d’Italia salgono in questo momento verso la ionosfera discorsi di questo tenore, mentre persino Romano Prodi, chiuso in un suo guscio forse sicuro, prezioso, inalterabile, o forse invece di una fragilità senza avvenire, fa capolino, ancora una volta, e riscopre l’Ulivo con tutte le sue balsamiche virtù. Cosicché, visto col grandangolo, dalla distanza, tutto questo flusso di orizzonti e di parole sembra la scena di una commedia di Goldoni: ogni attore parla per conto proprio e a voce alta verso la platea, dice che sta combinando una beffa al vicino, il quale, naturalmente, non deve ascoltare, mentre anche gli altri fingono di non sentire. Dunque Stefano Fassina lascia il gruppetto di Sinistra italiana, poiché sente odore di renzismo, e perciò si dichiara parzialmente d’accordo con Vendola nell’essere in disaccordo con Pisapia ma anche con Massimo D’Alema, il quale, intanto, a scopi imprecisati (ma sempre legati all’idea di riunire la sinistra) organizza riunioni, raduna delle truppe, ma purché sia chiaro che lui non sta né con Vendola né con Pisapia né tanto meno con Roberto Speranza e Pier Luigi Bersani, cioè quei dioscuri del rinascimento democratico che intanto, anche loro, vogliono ovviamente rifare la sinistra.

 

Ma la sinistra di Bersani e di Speranza, che non è la sinistra di Renzi pur essendo una sinistra “piantata come un chiodo nel Pd”, non è però nemmeno quella di Vendola, né tantomeno quella di Pisapia e figurarsi se è quella di D’Alema. E infatti, per questo, poiché Bersani e Speranza rimangono nel partito di Renzi (ma contro Renzi), vengono rimproverati da Pippo Civati, che – anche lui, va da sé, impegnato nella ricostruzione della sinistra – non sta né con loro, né con Fassina, né Vendola, né, figurarsi, con Pisapia, ma piuttosto invoca una scelta di campo “che sia chiara”. Chiaro, no? Mica tanto.

 

E infatti, mentre la Corte costituzionale si appresta – oggi – a pronunciarsi sul destino dell’Italicum, mentre l’Italia si consegna forse al sistema proporzionale, già si vedono i segnali di un futuro molto simile al passato: contorsioni, scomposizioni e coriandoli di una sinistra che non sa se essere Podemos o Italia bene comune, antisistema o costola del Pd, europeista o euroscettica, centrosinistra o sinistra-sinistra, Ulivo o rifondazione comunista, dentro o fuori dall’euro, globalista o localista… E a furia di togliere, di aggiungere, di precisare, di litigare e di vagheggiare, questo mondo scomposto sembra uno di quei volantini pubblicitari del supermercato, di quelli con offerte tre per due – e metti l’euro e togli l’euro, e togli la rosa del socialismo e metti la parola sinistra, e aggiungi Tsipras e togli Tsipras – che in politica, di solito, è la strada sicura per una pernacchia elettorale. Così Renzi viene rimproverato di non “chiamare” la sinistra, ma probabilmente – anche volesse – il segretario del Pd non saprebbe nemmeno a quale numero di telefono rivolgersi. E forse, il giorno in cui dovesse decidersi a chiamarne uno, magari quello di Pisapia, l’unico che forse non lo considera un demonio, quello c’è anche il rischio che gli risponda: “Scusami Matteo, ma sono rimasto solo”.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.