Virginia Raggi (foto LaPresse)

Il ricorso contro Raggi decade, la truffa grillina resta

Salvatore Curreri

Il tribunale di Roma dichiara inammissibile (non infondato) il ricorso sul contratto firmato dal sindaco di Roma. Ma la sentenza non scalfisce la principale tesi di fondo: violando il divieto di vincolo di mandato, il movimento 5 stelle viola la Costituzione. Il processo alla democrazia diretta è appena cominciato

Era del tutto scontato che il tribunale civile di Roma respingesse la richiesta di decadenza del sindaco di Roma, Virginia Raggi. Nel nostro ordinamento, infatti, l’eleggibilità è la regola, l’ineleggibilità l’eccezione. Di conseguenza, i casi d’ineleggibilità previsti dalla legge sono tassativi e non possono, pertanto, essere interpretati estensivamente o analogicamente, fino a ricomprendervi, come nel caso in specie, la sottoscrizione d’impegni o codici di comportamento prima delle elezioni.
Piuttosto, contrariamente alle aspettative, i giudici hanno dichiarato inammissibile - senza quindi respingerla nel merito – la richiesta di dichiarare nulli gli impegni sottoscritti dalla Raggi e dagli altri consiglieri comunali, con annessa salata penale (150 mila euro) in caso di loro violazione. Attenzione: inammissibile, non infondata perché, secondo i giudici, proposta da un soggetto che, non avendo sottoscritto l’accordo impugnato, è privo di un concreto interesse ad ottenerne la nullità. In definitiva, la sentenza del Tribunale di Roma non dice affatto che il contratto è legittimo, ma solo che il ricorrente non era legittimato.

 

  

La sentenza quindi non scalfisce assolutamente la tesi unanimemente condivisa secondo cui qualunque impegno sottoscritto da candidati ed eletti sono radicalmente nulli, e come tali giuridicamente irrilevanti, perché in radicale contrasto con il divieto di vincolo di mandato, sancito (direttamente o in via interpretativa) in tutte le assemblee rappresentative (europea, nazionali, regionali e locali).

 

L’ha chiarito fin dal 1964 la Corte costituzionale, quando, a proposito della disciplina di partito, ha affermato che tali impegni hanno valore solo politico e non giuridico: libero quindi il candidato o l’eletto di sottoscriverli ma libero, altrettanto, di prescinderne, senza con ciò perdere il seggio (o, come nel caso della Raggi, essere dichiarata ineleggibile), perché, come disse Burke, chiamato a rappresentare gli interessi di tutti gli elettori. Per questo i giudici hanno sempre dichiarato giuridicamente irrilevanti le “lettere di dimissioni in bianco” che un tempo i partiti facevano sottoscrivere ai loro candidati per assicurarsene l’ubbidienza. Dimissioni che, anche per evitare simili stratagemmi, devono essere approvate dalla camera d’appartenenza).

 

Tali impegni e le correlate sanzioni sono la risposta sbagliata ad un problema vero: il transfughismo parlamentare. E’ sotto gli occhi di tutti il numero abnorme e patologico di parlamentari che passano, talora con eccessiva disinvoltura, da un partito (e talora da uno schieramento) ad un altro. Se un tempo il radicamento ideologico dei partiti faceva sì che tali cambiamenti segnassero la morte politica dell’eletto, marchiato a vita per la sua infedeltà, oggi invece vengono per lo più caldeggiati e premiati, anche in caso di ritorno – da novello figliol prodigo – alla forza politica d’originaria appartenenza.

 

Di fronte ad una simile situazione, in nome di una battaglia di coerenza politica, il Movimento 5 Stelle ha scelto la strada – apparentemente più semplice e chiara – del vincolo di mandato degli eletti nei confronti degli elettori, della cui volontà, espressa attraverso la rete, essi sarebbero meri portavoce. Si realizzerebbe così il sogno di Rousseau – cui non a caso la piattaforma è dedicata – della sovranità popolare non rappresentata ma direttamente esercitata dagli elettori.

 

Quello che accaduto in questi giorni a Roma e Bruxelles dimostra quanto sia irrealizzabile tale prospettiva. Innanzi tutto, le scarse percentuali di militanti – rispetto a quelle più ampie dei votanti alle elezioni – che partecipano alle votazioni on-line, anche quando strategiche per la linea politica del movimento, dimostrano come oggi la libertà dei moderni, al contrario di quella degli antichi, è quella innanzi tutto di non occuparsi continuamente e personalmente della cosa pubblica.
In secondo luogo, è ormai notorio che l’esaltazione populista della democrazia diretta è solo una apparenza dietro cui si cela una struttura fortemente centralizzata e opaca, il cui vertice – come in tutti i partiti personali – rimane intoccabile, come dimostra l’uso unidirezionale che lo stesso Grillo fa del suo blog. La tragicomica vicenda del gruppo al Parlamento europeo, gestita addirittura all’insaputa degli stessi deputati pentastellati, unitamente ai poteri discrezionali e di ultima istanza di Grillo in tema di sospensioni ed espulsioni (a raffica) del movimento dimostrano ancora una volta quanto possano essere illusori gli ideali democratici di un movimento al suo interno non democratico. Le reintegrazioni disposte dai giudici degli espulsi e dei sospesi per violazioni delle norme statutarie e regolamentari che obtorto collo il Movimento si è dovuto dare (mancanza del quorum del 75% previsto dal codice civile; distorsioni informative sulla finalità del voto; criteri per la nomina del collegio dei probiviri, ecc.) non sono – com’è comodo dire – reazioni dell’establishment borghese contro la portata rivoluzionaria del Movimento ma la conseguenza dell’applicazione di regole ispirate alla necessità che, per Costituzione, i partiti perseguano i loro scopi politici “con metodo democratico” (art. 49), cioè con un’organizzazione interna non di carattere militare (art. 18.2), in cui cioè il vertice sia contendibile e non invece (anche sotto il profilo civile) blindato.

 

In terzo luogo, infine, le vicende del Movimento 5 Stelle costituiscono la rivincita della democrazia rappresentativa su quella (etero) diretta. Democrazia rappresentativa che è necessariamente confronto e mediazione; che vuole il consenso essere frutto non di penali o sanzioni (demagogicamente destinate ai terremotati) ma prima di tutto di un metodo condiviso di decisione collettiva; che implica certamente coerenza degli attori politici ma non rigidità di mandato, come se fossero soldatini che il burattinaio di turno manovra. La politica è un’arte complessa e difficile, che richiede competenza, capacità di mediazione e pragmatismo, e non soluzioni miracolistiche e automatiche in nome di una spesso pretesa volontà del popolo.

 

Se si vuol combattere il transfughismo parlamentare (l’acqua sporca) senza sacrificare la democrazia rappresentativa (il bambino), bisogna rendere gli eletti responsabili verso gli elettori e non verso i dirigenti di partito o gli iscritti (magari dai primi etero-diretti). Ben altre quindi solo le soluzioni percorribili, come ad esempio il recall nel caso dei collegi elettorali uninominali, oppure, in sede parlamentare, il divieto per i transfughi di dar vita a nuovi gruppi parlamentari, con tutte le conseguenze (anche finanziarie) del caso. In ogni caso il tema del divieto di mandato imperativo merita una riflessione ben più articolata ed approfondita di quella invece semplificatoria e demagogica cavalcata dai pentastellati. Il processo alla democrazia diretta è appena cominciato.

 

Salvatore Curreri è professore di diritto Costituzionale