Pier Luigi Bersani alla Festa de l'Unità di Roma

Perché quello di Bersani e della minoranza pd è grillismo involontario

David Allegranti

Michele Serra aveva ragione, a suo modo, perché nella multi-retorica di Di Battista c’è anche una generosa fetta di retorica gauchiste

Roma. Nel 2013 provò a ghermirli e nel buio incatenarli con un accordo di governo. Non era un anello come quello del Signore degli Anelli, ma Pier Luigi Bersani pensò che valesse la pena aprire un dialogo con i Cinque Stelle. I quali, sentitamente, spernacchiarono l’allora leader del centrosinistra in diretta streaming. Ecco, Bersani e i suoi sono rimasti fermi a quel 27 marzo. Non si sono più ripresi.

 

“Non capisco chi esulta per il rifiuto dei liberali europei di accoglierli. Sarebbe stato un passo avanti. Attenzione a come ci si rapporta con il M5s perché a bastonare il cane tutti i giorni, in tanti poi prendono le parti del cane”, ha detto Bersani in un’intervista a Repubblica per chiosare il colloquio fra Ezio Mauro e Matteo Renzi di domenica, sempre sul quotidiano di largo Fochetti. Molto interessante: sarebbe utile capire allora perché per anni la sinistra ha contribuito alla vittoria politica di Berlusconi grazia alla sua quotidiana demonizzazione per via giudiziaria.

“Sia chiaro: sostenere come Renzi che i Cinque Stelle sono solo un algoritmo è una solenne sciocchezza che spiega perché sono sondaggiati (sic!) al 30 per cento”, twitta Miguel Gotor, l’ideologo del bersanismo. Una parte della sinistra italiana è malata di grillismo inconsapevole. Pensa che per battere il M5s sia necessario imitarlo, se non nei toni quantomeno nello spirito. Si adonta per i presunti cani presunti bastonati, senza spiegare però cosa fare con quei cani quando provano ad azzannarti, a riempire l’opinione pubblica di balle spaziali. Alla fine insomma diventa tutto vietato; è vietato fare battute di spirito sui congiuntivi sballati di Di Maio, sulle fake news che nonostante tutto non fanno perdere voti al partito di Grillo, e persino sulle proposte economiche grilline che magari piacciono alla minoranza Pd. Insomma, il grillismo non è criticabile, neanche può essere definito “populismo”: “Sarebbe più giusto parlare di demagogia, male da cui non siamo immuni nemmeno noi. Ricorda lo slogan referendario ‘meno politici’?”. In effetti, il renzismo non è stato immune al grillismo; in campagna elettorale per il referendum, il segretario del Pd ha ceduto al partito dello scontrino: sembrava che il principale scopo della riforma costituzionale fosse tagliare un po’ di indennità e poltrone dei parlamentari.

 

“La sinistra Pd con il M5s – dice al Foglio Zeffiro Ciuffoletti, storico dell’Università di Firenze – si riconosce nelle proprie origini, nella subcultura della sinistra italiana. Sono posizioni che non hanno una struttura ideologica piena, ma sono patchwork di subculture diverse, compresa quella della lagna: va tutto male, è tutto da cambiare, tutti sono corrotti. Bersani nel 2013 credeva di trovare persone uguali a lui, ma il punto che i Cinque Stelle vogliono essere protagonisti per conto proprio; non hanno bisogno di Bersani, così come non ne ha bisogno Renzi, che però è costretto a tenerserli”.  La retorica di bersanismo e grillismo, insomma, pare essere la stessa. Basta leggere il capolavoro di Dibba, di cui il Foglio ogni giorno pubblica le migliori perle, per capirlo. Lo notava Claudio Giunta domenica scorsa sul Domenicale del Sole 24 Ore. “Nel non ancora quarantenne Alessandro Di Battista si sono accumulati, strato su strato, decenni – forse secoli – di retorica italiana. In un’Amaca di qualche tempo fa Michele Serra si domandava, un po’ deluso, come mai Di Battista non fosse del Pd o di Sel. Serra aveva ragione, a suo modo, perché nella multi-retorica di Di Battista c’è anche una generosa fetta di retorica gauchiste: la mistica del Popolo Sano e Naturale, che è uno degli stigmi più patetici della mentalità borghese. Ma è solo una fetta. Nel resto della torta c’è la retorica hippy del comunque viaggiare, la retorica alla Terzani del filosofare viaggiando, la retorica cristiana della buona povertà, quella comunitarista che loda l’artigiano e biasima l’industriale, quella terzomondista (gli africani “danzano sul mondo perché sono dominatori del tempo”), quella pasoliniana nemica dei consumi e della TV”. Non è forse la miglior sintesi del catto-comunismo all’italiana?

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.