Beppe Grillo (foto LaPresse)

Il giusto processo al grillismo

Claudio Cerasa

Non è solo la truffa costituzionale. Dietro al giudizio che pende sul contratto di Raggi c’è la vera essenza dell’imbroglio grillino: la democrazia diretta come negazione della democrazia. Il lato oscuro del vaffa, a 10 anni dal primo V-day

Questa mattina il tribunale di Roma si riunirà per decidere se ammettere un ricorso importante presentato contro la candidatura del sindaco della Capitale Virginia Raggi. Il ricorso è stato elaborato da Venerando Monello, avvocato esperto di diritto amministrativo iscritto al Pd, e ciò che viene contestato al sindaco, come sanno bene i lettori del Foglio, è aver sottoscritto un contratto privato con una società terza (la Casaleggio Associati) che presenterebbe diversi profili di incostituzionalità (articolo 3, articolo 51, articolo 67, articolo 97) e che, complice una clausola che prevede una penale da 150 mila euro in caso di tradimento del contratto, renderebbe di fatto Raggi una dipendente di una società privata. Il tribunale di Roma non accoglierà in toto il ricorso sulla nullità del contratto firmato da Virginia Raggi (ed è da escludere che ci possa essere una qualche ripercussione sulla sua elezione alla guida di Roma). Ma allo stesso tempo è difficile che rigetti del tutto quello che è il cuore del problema posto dall’avvocato Monello (gran cognome): la compatibilità del Movimento 5 stelle con i princìpi contenuti nella Costituzione. Se, come sembra, il tribunale civile di Roma muoverà un primo passo nella direzione del rendere nullo il contratto fatto firmare dal garante del M5s (Beppe Grillo) agli eletti al comune di Roma (e non solo a quelli) la notizia sarebbe clamorosa per diverse ragioni.

Da una parte sarebbe confermata un’evidente truffa costituzionale portata avanti dal Movimento 5 stelle, che trasformando gli eletti grillini in dipendenti della Casaleggio Associati ha di fatto abolito il principio costituzionale dell’esercitare le funzioni pubbliche senza vincolo di mandato.

 

Dall’altra parte sarebbe confermata un’altra evidente truffa, questa volta culturale, portata avanti non solo dal movimento di Grillo ma da tutti coloro che volontariamente o involontariamente hanno spianato la strada al grillismo: l’idea che la democrazia diretta sia la più naturale e più democratica evoluzione della democrazia rappresentativa.

 

Non sappiamo naturalmente quale sarà la decisione del tribunale di Roma – e non sappiamo se, come la logica vorrebbe, il giudice prenderà o no una decisione o se, in alternativa, presenterà un’ordinanza di remissione alla Consulta per fare chiarezza sui potenziali principi incostituzionali presenti nel contratto firmato da Virginia Raggi. Sappiamo però che, a prescindere da quello che sarà il destino del ricorso dell’avvocato Monello, da oggi comincia ufficialmente un grande processo pubblico contro la truffa grillina. La violazione sistematica dell’articolo 67 della Costituzione non pone solo un problema di legalità all’interno del Movimento 5 stelle, ma pone anche un problema importante rispetto a ciò che comporta l’applicazione della dottrina talebana della democrazia diretta. La questione è semplice ed è inutile girarci attorno: perché il M5s non può permettersi per nessuna ragione al mondo di avere al suo interno una qualsiasi forma di dissenso? La natura del contratto grillino dà tutte le informazioni necessarie per rispondere alla domanda: la democrazia diretta non è uno strumento che agevola il confronto democratico di un partito, ma al contrario è uno strumento che agevola la legittimazione di un controllo non democratico di un partito. I presunti portavoce del popolo, come si evince dalle pagine firmate da Virginia Raggi, non sono infatti portavoce dei loro elettori ma sono, per loro stessa ammissione, portavoce dei garanti del Movimento 5 stelle. E in virtù di questa particolare condizione, non può stupire che il sindaco di Roma (il sindaco della Capitale d’Italia) abbia sottoscritto un contratto privato con la società Casaleggio Associati in cui si impegna, letteralmente, a eseguire le indicazioni di Beppe Grillo e del suo staff nell’amministrazione della città. Non si tratta solo di una forma estrema di centralismo democratico (fosse solo quello) ma si tratta di una particolare forma di democrazia. In cui, paradosso mica male, si certifica che la democrazia diretta può esistere solo se gli eletti accettano di essere sottomessi alla volontà (a) di un garante politico non eletto e (b) di un’azienda privata.

La formula del populismo grillino non è cambiata nel corso del tempo. E’ sempre la stessa da quel 14 giugno del 2007 in cui Grillo lanciò l’idea del primo Vaffa-day. Da dieci anni a questa parte (curiosità sulla quale torneremo: nel 2007 è nato il V-day, nel 2007 è uscito il libro “La Casta”) il vaffanculo è l’unico vero e sofisticato messaggio veicolato dal movimento 5 stelle e in presenza di un messaggio di questo tipo è evidente che non serve contraddittorio, non serve democrazia interna, non serve occuparsi di verità, non serve distinguere ciò che è vero da ciò che è virale, non serve fare distinzioni tra chi è condannato e chi è indagato, ma serve soltanto muoversi come una falange armata per combattere gli avversari infedeli, rivendicando solo ed esclusivamente la propria abilità a scandire meglio di chiunque altro quella parola: vaf-fan-cu-lo. L’incompatibilità sostanziale tra la democrazia diretta e la stessa democrazia – testimoniata dal contratto firmato da Virginia Raggi – ci dice molto anche di una caratteristica importante del movimento 5 stelle che lo rende un unicum nel panorama dei populismi mondiali. Una caratteristica che spiega bene l’inevitabile, forse, decomposizione del grillismo. La forza del vaffanculo è quella di essere compatibile solo con la cultura del No, e noto, e la prevalenza di questa cultura è la vera ragione della trasversalità del movimento  5 stelle: il grillismo non è di destra né di sinistra non perché “supera gli steccati dei partiti”, ma perché limitandosi a dire vaffa non ha bisogno di schierarsi su nulla; e dunque non ha bisogno di prendere posizione su nulla. Il movimento 5 stelle non dice nulla e non fa nulla e non prende mai posizione se quella posizione non comprende un No a qualcosa. Il Sì non esiste, mai, e questa caratteristica differenzia enormemente il grillismo da altri fenomeni analoghi di matrice populista che abbiamo visto in Italia e che stiamo osservando ora nel resto del mondo. I populismi – pensate a Donald Trump, pensate a Marine Le Pen, pensate a Nigel Farage, pensate a Geert Wilders – sono sempre di destra o di sinistra perché bene o male devono provare a rappresentare non solo lo sdegno ma anche l’ingegno di un paese o quantomeno un pezzo della sua storia (il nazionalismo francese Le Pen, il localismo la Lega di Bossi, i dimenticati bianchi nel paese del politicamente corretto Donald Trump). Alla base di ogni populismo, come prevede una fortunata espressione coniata qualche anno fa da uno studioso olandese di nome Cas Mudde, c’è un equilibrio particolare che si chiama thin ideology. E in base a questa teoria il populismo – che è un’ideologia fine, leggera – ha una vita mediamente lunga se si sposa con un’ideologia più profonda e radicata nella storia di un paese. Dunque se prende parte. Dunque se prende posizione. Dunque se non dice soltanto no. Se invece si limita a dire solo vaffanculo il populismo può gonfiarsi come un palloncino, ma alla fine non regge e al primo incidente è destinato a esplodere. I detonatori possono essere tanti. Oggi dal tribunale di Roma ne potrebbe arrivare uno. La truffa del grillismo è lì ed è evidente. E se si vuole capire perché la democrazia diretta è il contrario della democrazia basta leggere un contratto e smetterla finalmente di spacciare la fuffa del vaffa per un grande e rivoluzionario progetto politico.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.