Susanna Camusso durante una manifestazione contro il Jobs Act (foto LaPresse)

La sinistra che torna a sognare il posto fisso è una piaga per il paese

Umberto Minopoli

La retorica contro il Jobs act, i voucher e la riforma dell’art. 18: tutte spie di una deriva restauratrice da combattere

Una società di divieti… ma aggirati! E’ il mercato del lavoro che realizza i propositi retrogradi di certa sinistra. Con il passo del gambero l’Italia del No si appresta a demolire, dopo il maggioritario e il bicameralismo regolato, le riforme del mercato del lavoro. Insieme al proporzionale del “bel tempo che fu” ci apprestiamo a reintrodurre divieti, bardature, barriere del mercato del lavoro più rigido e vecchio dell’occidente. E’ l’epitome del racconto di una società in decrescita, in declino occupazionale ma felice della propria condizione stagnante. Resetteremo all’indietro, magari con la minacciata cancellazione dell’ennesimo referendum abrogativo, il mercato del lavoro italiano appena riverniciato dal Jobs Act. Con quest’ultimo liquideremo un quindicennio esatto (il 2003, data d’approvazione della riforma Biagi) di tentativi (frustrati), propositi irrealizzati e promesse mancate di modernizzazione del mercato del lavoro. Fino al Jobs Act appunto, attivo da soli due anni, e prima parziale applicazione dei propositi della riforma Biagi. L’analogia del Jobs Act con la riforma istituzionale bocciata il 4 dicembre è impressionante: anche in questo caso una riforma effettiva, dopo decenni di “riformismo mancato”, viene cancellata senza neppure essere verificata. E non per introdurre un’innovazione migliorativa ma per restaurare la condizione precedente, faticosamente, emendata.

 

Capricci italiani! Interessante, lo consigliamo a chi coltiva e confessa incubi anti blairiani, il paragone con l’esperienza tedesca. La Germania, che pure non è una macchina di crescita economica, inaugurò (governo Schroeder) nello stesso anno della riforma Biagi una politica di innovazioni del mercato del lavoro (pacchetto Hartz). Alle riforme del lavoro i tedeschi accompagnarono una robusta revisione delle relazioni industriali, con l’incentivazione della contrattazione aziendale e dei salari di produttività (una modalità avviata, in Italia, solo nel 2016 con il contratto dei metalmeccanici). Il pacchetto Hartz, si può dire, conteneva come “atti” tutte le misure che la legge Biagi indicava come “propositi”. E anticipava al 2003 tutte le innovazioni che il Job Act metterà a sistema nel 2014: i temi della flessibilità d’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, quelli dello scambio scuola-lavoro (sistema duale), quelli della regolazione del lavoro saltuario, degli incentivi (non solo monetari) alle imprese per l’ingresso dei giovani ecc. Il bilancio del riformismo tedesco, a 14 anni dal Jobs Act di Schroeder è il seguente: disoccupazione al 6 per cento (era al 12 per cento come quella italiana di oggi); inoccupazione giovanile sotto il 10 per cento (in Italia è oggi al 38 per cento). By the way: la produttività oraria complessiva (manifatturiero e servizi) tedesca è cresciuta, nello stesso quindicennio, del 34 per cento (contro l’1 per cento in Italia). La sinistra tedesca, pur condividendo con il resto della sinistra europea lo stato comatoso di un’irrilevanza e declino di funzione storica, può almeno accampare un ruolo di impronta incancellabile nella solidità e forza dell’economia tedesca.

Da incubo il confronto con quella italiana. Partendo alla pari nel 2003, con la riforma Biagi (governo Berlusconi) e il pacchetto Hartz in Germania, le due economie sperimentano un quindicennio di forbice progressiva e divaricazione nei tassi di disoccupazione, nell’ occupazione giovanile e anche (salari di produttività) nelle retribuzioni, paghe orario e condizioni dei lavoratori. Fino al Job Act del 2014. La Germania ha applicato le sue riforme del lavoro in un quindicennio. E i risultati si vedono. Noi cancelleremo il Jobs Act dopo due anni. E i risultati, purtroppo, li vedremo. Torneremo ad essere la carrozza più fragile del trenino europeo, declinante e stagnante, con il mercato del lavoro più strabico dell’Occidente: capace di produrre lavoro solo al… nero. Si parla spesso (Bersani) della narrazione ottimistica di Renzi sul lavoro e le promesse del Jobs Act. Ma della narrazione di una certa sinistra, quella per la quale l’incubo e’ il riformismo (derubricato a blairismo) e non la decrescita e l’inoccupazione giovanile, quando ne parliamo? E’ mai possibile che, nell’Italia dai tassi di disoccupazione anomali, dell’inattività giovanile e femminile e del mercato del lavoro nero, la narrazione ricorrente debba essere quella dell’ossessione della precarietà? Prendiamo il tema dei voucher. Si tratta di un tentativo, forse perfino con tratti di ingenuità burocratica, di regolare aree border line di prestazioni occasionali, intermittenti, piccoli lavori domestici, esigenze puntuali in vari settori. Esigenze ineliminabili e che, in assenza di vouchers, possono essere fatte soltanto al nero. I vouchers sono, soltanto, un tentativo di regolazione di prestazioni di lavoro che non saranno mai trasformate in un contratto di lavoro stabile: un’area, lo ribadiamo, border line per la regolazione, esposta naturalmente a possibili usi irregolari da parte degli utilizzatori.

 

Occorrerebbe, sulla legislazione del lavoro che viene sottratto al nero, un comportamento di verifiche ricorrenti, di correzioni in progress, di consapevole sperimentalismo. Come ha azzardato, con pragmaticità, il ministro Poletti. Ricevendo, per tutta risposta, il risibile diktat di Speranza: “O cancelli i voucher o ti sfiduciamo”. Come è stato per ogni sperimentazione di strumentazione flessibile e di de-irrigimentazione del lavoro giovanile, la sinistra si prepara a narrarci dei voucher come nuova “piaga sociale”: mostruosità l’hanno chiamata. In questa narrazione la realtà della decrescita si perde; l’inoccupazione del 50 per cento circa della popolazione giovanile diventa un dettaglio; l’oceano di lavoro nero come destino di vita di almeno due generazioni assurge a dimenticanza. Nel racconto di sinistra questa realtà scompare e l’affresco del lavoro diventa dominato dal totem della precarietà. Che diventa il connotato e la descrizione di ogni flessibile e non irrigidita modalità di prestazione del lavoro giovanile. Anche laddove, magari, il lavoro non fisso o permanente, è un’alternativa al lavoro nero e al non lavoro.

 

E’ una narrazione irreale che sta tornando dopo la parentesi del Jobs Act. Autentici non fatti, il numero dei vouchers o i licenziamenti per disciplina (articolo 18) ricevono, nella sorprendente e deprimente Italia del No, la dignità di temi da agenda politica. C’è chi afferma che, solo per questo, dovremmo o potremmo rinviare elezioni politiche. Mentre più nessuno o quasi, nella compagine politica, conferisce urgenza e preminenza all’economia, al fiscal compact, ai provvedimenti per la crescita. Ho citato altre volte, su questo giornale, il libro-inchiesta bellissimo di un accademico italiano negli Usa: “La nuova geografia del lavoro” di Enrico Moretti. Dovrebbe stare sul comodino di ogni policy maker. Ma specialmente dovrebbe essere testo di formazione, per i saccenti politici della sinistra, sul mercato del lavoro che verrà. E che, anzi, è già venuto nella realtà e nei numeri del mercato del lavoro più attivo, affluente, inclusivo e innovativo del mondo: gli Stati Uniti.

 

Moretti smonta il pessimismo della precarietà, la narrazione delle “mille forme” del lavoro moderno, delle sue variegate modalità di prestazione, della centralità della mobilità (tra città, settori e ambienti geografici), della flessibilità degli orari, delle deregolazioni insieme alle ri-regolazioni, come “piaga sociale”. E descrive, numeri alla mano, il colossale e sorprendente processo di esplosione occupazionale che, pur con i limiti dell’abbondanza (nuove ineguaglianze, disparità, geografie di redditi, timori di delocalizzazioni), fanno degli Usa oggi un eldorado per giovani, le nuove imprese, l’industria dell’innovazione. Altro che terrore della precarietà o “mostruosità” del lavoro flessibile! La descrizione di Moretti illustra un autentico “rinascimento” del mercato del lavoro americano dopo la “grande paura” della globalizzazione, della fine della manifattura, della scomparsa dei blue collars, della delocalizzazione con decrescita.

 

Nelle nuove “opportunità” americane, scandalizza Moretti, non può esserci distinzione qualitativa importante nel multiverso del lavoro: la prorompente creazione di lavoro innovativo e dagli alti salari (il mondo di internet, l’industria dell’innovazione, quella della fitness, della sanità, dei servizi avanzati, del software e delle applicazioni, delle biotecnologie o dell’aerospaziale) si trascina, come condizione necessaria e obbligatoria, un oceano di lavoro occasionale, intermittente, mobile, anche meno pagato (nel food, nei servizi alla persona, nelle costruzioni, nella cura di bambini o anziani, nei servizi di vendita). Lì, in America, è accettato come l’altra faccia dell’innovazione. Qui da noi, per la sinistra attempata, sarebbe descritto come una dickensiana piaga sociale: un mondo da disciplinare con divieti, magari dello “Statuto dei diritti del lavoro più bello del mondo”. Che importa poi se sono diritti (virtuali) a un lavoro che non c’è o è raggiungibile solo nella realtà magmatica del lavoro nero? Vizi privati e pubbliche virtù: la narrazione di sinistra del mercato del lavoro. 

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