Matteo Renzi (foto LaPresse)

Salvare la rivoluzione dalla mediazione. Una lezione di De Gaulle

Claudio Cerasa

Renzi ha solo una possibilità per far sopravvivere il suo progetto politico: allontanarsi dal partito della lunga conservazione e costruire subito una reazione contro l’Italia in bianco e nero

Il 20 gennaio del 1946, il generale Charles de Gaulle, dopo aver provato a modificare la natura istituzionale del proprio paese tentando di passare senza successo da una Quarta a una Quinta Repubblica, decise di dimettersi da presidente del Consiglio, al termine di due anni di duro e contrastato governo, e di ritirarsi a vita privata. Lo fece per dare un messaggio forte, di rottura, contro una tendenza inarrestabile in corso nel suo paese di riproporre uno schema di governo antico. Uno schema all’interno del quale i partiti avevano cominciato a rialzare la testa, bloccando l’attività di governo attraverso una costante ed estenuante promozione di una democrazia caratterizzata dall’uso spregiudicato del potere di veto. Il ritiro del generale registrò una fase di interruzione qualche anno dopo, quando De Gaulle, per pochi mesi, si ripresentò sulla scena politica con un suo partito. Ma il vero ritorno avvenne molti anni dopo, nel 1958, quando De Gaulle riuscì nell’impresa di riproporre al paese il proprio progetto politico, attraverso un referendum costituzionale che permise alla Francia di passare dalla Quarta alla Quinta Repubblica, quella che conosciamo oggi. Il 1946 e il 1958, come è evidente, non sono neppure lontanamente paragonabili ai nostri giorni e De Gaulle, per sfortuna di Renzi, non è paragonabile al segretario del Pd. Eppure, nella parabola del generale francese, in nessun modo replicabile, c’è una lezione che vale anche per il Rottamatore parzialmente rottamato dal plebisicito contro la rottamazione di domenica scorsa. La lezione è semplice: un leader che punta su una rivoluzione riformista, può sostituire la parola rottamazione con la parola mediazione?

Lasciamo perdere cosa significhi per le speranze del riformismo italiano la nascita di un nuovo governo. Proviamo a fare un passo in avanti e arriviamo al punto. Se è vero che nell’èra della politica in bianco e nero è impossibile avere un leader a colori, l’unica possibilità che Renzi ha di far sopravvivere il suo progetto politico è quella di allontanarsi il più possibile – reagendo, sorprendendo e osando – da quello che potremmo definire il partito della lunga conservazione. E per farlo deve essere pronto a prendere in considerazione opzioni estreme, nel caso in cui non dovesse realizzarsi l’unico piano possibile che permetterebbe a Renzi di limitare i danni generati dalla nascita di un governo “old style”, come direbbe lo stesso Renzi (anno 2011, commento dell’allora sindaco di Firenze alla crisi in corso a Roma nella giunta Alemanno: “Fa consultazioni con tutti, persino con i capigruppo delle Camere. Per me certe pratiche sono fuori dal mondo, mi vergognerei a farle. E’ un rito da forche caudine. Roba old style, da Prima Repubblica”).

Il percorso di Renzi per il salvataggio parziale del suo programma riformista (o quantomeno, di quel che ne resta) non può che prevedere una serie di step rigorosi: una volta accettato il fatto che un governo debba nascere, occorre far cadere il governo un secondo dopo la sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale, provando a difendere con i denti l’idea che l’Italia non sia ancora destinata a diventare una repubblica proporzionale fondata sulla consociazione e non più sulla competizione.

L’Italia dei sindaci non ci sarà più, lo sappiamo, ma l’Italia dell’acqua stagnante si può ancora parzialmente evitare se il segretario del Pd avrà il coraggio, quando sarà, di non tirarsi indietro, nel corso di una battaglia che si intravede chiaramente e che è già fissata sul calendario del prossimo anno. Il succo della battaglia è sintetizzato in una doppia linea che già oggi si registra alla luce del sole all’interno del Pd. Matteo Renzi (con i suoi) dice che serve un governo solo per andare a votare al più presto (Graziano Delrio, 7 dicembre: “L’unico governo che può nascere è quello che ci porta rapidamente alle elezioni”). Gli alleati (alleati chissà fino a quando) di Renzi nel Pd dicono invece qualcosa di diverso. Dicono che se nasce un governo, questo governo può durare a lungo, anche al termine della legislatura (Ettore Rosato, capogruppo Pd alla Camera, area dem, corrente Franceschini, 7 dicembre: “Se nasce un governo di larghe intese, nasce per concludere la legislatura”). E’ all’interno di queste sfumature che, nel giro di qualche settimana, sarà chiaro se Renzi, una volta registrata la sentenza della Consulta sull’Italicum, avrà o no la forza e il coraggio di sfidare il partito della lunga conservazione, che oggi spadroneggia anche dentro il Pd.

Per dirla in estrema sintesi: quando nasce un governo che ha una maggioranza – specie se quel governo nasce a pochi mesi dal giorno in cui i parlamentari matureranno la pensione, primo ottobre 2017 – interrompere quell’esperienza è quasi impossibile (anche con in tasca una vittoria alle primarie del Pd) e se Renzi vorrà andare a votare dovrà prendersi grandi rischi. Dovrà essere disposto a forzare la mano, come si dice, anche all’interno del partito. Ma in caso di sconfitta dovrà essere pronto a trarne le conseguenze, anche a costo di rifugiarsi a Palo Alto o di mettere in campo una rupture, anche dal Pd. Rimanere aggrappato a una maggioranza delegittimata dal popolo in un Parlamento delegittimato da un plebiscito referendario sarebbe la dimostrazione plastica che il presidente del Consiglio uscente è disposto, per salvare se stesso, a sacrificare la sua idea d’Italia. A quarantuno anni c’è ancora del tempo per provare a lottare fino all’ultimo istante e dimostrare di essere ancora un leader ambizioso che vuole cambiare l’Italia, e non soltanto i governi.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.