Beppe Grillo durante il comizio a Torino per il No al referendum (foto LaPresse)

Minority Report

Il No al referendum e le tribù in cui viviamo segregati

Giovanni Maddalena

Il risultato del 4 dicembre dimostra che testimonial e mezzi di comunicazione tradizionali non sono più efficaci. La comunicazione di massa non funziona più. Tra social network e difficoltà di fact checking, i tentativi di dialogo e i richiami all'autorità non funzionano più.

Il recente referendum ha confermato alcuni dei trend più importanti della comunicazione politica contemporanea. Un articolo del 2015 dell’Università Cornell parla di “world of tribes”, un mondo della comunicazione fatto di tribù. In effetti la comunicazione politica al tempo dei social network non si è affatto globalizzata. Si sono creati mondi paralleli, in tutti gli schieramenti, del tutto impermeabili sia al famoso controllo dei fatti (fact checking) sia al normale dialogo di convincimento. Per rimanere al nostro referendum, nessuno convinto del legame tra “stallo economico” e Costituzione ha cambiato idea sotto il diluvio di argomenti contrari così come nessuno certo del complotto “pluto-giudaico-massonico” ha accettato altre spiegazioni per il cambiamento proposto.

 

La politica ha una componente affettiva fortissima e, una volta stabilita la propria tribù di appartenenza, raramente si mette il naso fuori di essa. Ciò è sempre avvenuto, ovviamente, ma i social network hanno incrementato esponenzialmente questa dinamica e hanno trasformato a loro immagine molti altri mezzi di comunicazione e i tipi di segno a cui si presta più facilmente attenzione.

 

Prendiamo il caso dell’ultimo referendum italiano che replica quanto già visto con Brexit e Trump. I giornali italiani erano schierati in maggioranza a favore del Sì, alcuni più altri meno apertamente (il più apertamente di tutti, con molta simpatia, il Foglio). Lo spazio degli argomenti del governo e del premier è stato predominante. Eppure, la maggioranza dei cittadini, che ha partecipato attivamente alle elezioni, ha ascoltato poco o nulla di tutto questo.

 

Molta comunicazione politica, infatti, passa oggi da siti internet e social network. Essi sono diventati spazi comunitari di appartenenza dove ciascuno esclude quelli che non la pensano come lui/lei. D’altro canto, i giornali e le televisioni tendono a conformarsi a questo schema, smettendo di essere informativi e diventando dei salotti, dei club che vengono frequentati solo da coloro che già ne condividono il pensiero. Diventano a loro volta una delle tribù, quella dell’élite. Un esempio oltre confine dovrebbe aiutarci a capire. La Cnn, un tempo fonte autorevole, lunedì parlava di rivoluzione populista in corso in Italia senza rendere alcun conto della complessità di motivazioni che hanno spinto persone di diversa estrazione e cultura a votare per il “No”. E se si vuole pure considerare convenzionalmente Grillo o Salvini dei populisti – termine che personalmente trovo vuoto – dire che Onida o Zagrebelsky, Monti o qualche decina di raffinati costituzionalisti, per non parlare di 19 milioni di italiani, siano tutti dei “populisti” rivoluzionari sembra quantomeno affrettato per una delle grandi testate del mondo giornalistico. Non c’è niente da fare, però: alla Cnn non controllano i fatti come non li controllano le centinaia di blog che stanno costruendo la mentalità popolare.

 

Anche il tipo di segni utilizzato, come segnalato molte volte da questa rubrica, è in evoluzione social. I segni delle comunità sono quelli dell’appartenenza e, più ancora, le immagini, i suoni e i toni che fanno sentire di appartenere a una comunità. Il tono negativo del “mandiamo a casa Renzi” dominava facilmente in questo caso nel campo del No e Renzi, purtroppo per lui, ha trovato solo nelle dimissioni i toni che l’avrebbero fatto vincere o perdere con meno scarto. Dal punto di vista semiotico è l’era delle icone, con i suoi pregi e i suoi difetti: si ragiona di meno ma conta di più la sincerità, vera o apparente che sia. E’ meno efficace il lungo ragionamento come la pura indicazione del leader come prodotto da vendere (il nome sul logo di partito o l’uso anche stavolta inefficace di testimonial).

 

Come sempre non si sa se venga prima l’evoluzione dei mezzi o quella dei segni, ma è certo che siamo in un mondo di tribù dalle quali è difficile uscire e i tentativi di dialogo appaiono velleitari tanto quanto il riferimento ad autorità super partes. Occorre sperare che si riformi la credibilità di qualche testimone d’eccezione o la chiarezza di qualche discorso ideale prima che il non dialogo fra tribù degeneri in violenza.