Matteo Renzi (foto LaPresse)

Il Partito della Nazione ha perso ma è ancora l'unico progetto vincente

Umberto Minopoli

Renzi si dia il tempo necessario a impostare così il congresso del Pd: senza melodrammi e concessioni retoriche. Il nominalismo è inutile.

 

La scommessa era: il Sì è voto repubblicano. Deve calamitare uno schieramento, auspicabilmente maggioritario, di elettorato avverso a derive populiste, equilibrato, riformista. Non ha funzionato. Inutile alambiccare: è questo che ha perso Renzi. L’errore è stato sottovalutare la rottura del Nazareno. E scommettere su una facile diserzione dell’elettorato di Berlusconi, su una sua automatica ragionevole ricollocazione “senza trattativa” dopo la rottura sulla presidenza della Repubblica. Tra tutti gli errori di Renzi, col senno di poi, questo è stato, a mio avviso, quello decisivo: aver sottovalutato un accordo esplicito, strategico e di prospettiva con Forza Italia dopo la rottura su Mattarella. Berlusconi, pur in una complessiva strategia suicida per lui, è riuscito a far passare nel suo elettorato l’esistenza di una sorta di piano B: la sconfitta di Renzi e la vittoria del No sarebbe stata, paradossalmente, l’unica strada per la destra di rientrare in gioco. Ha convinto. I presupposti c’erano. Era evidente, infatti, in caso di sconfitta del Sì, che nessuna componente del No, a parte Forza Italia, deteneva nel breve periodo di una possibilità di coalizione con il Pd per affrontare l’emergenza che si sarebbe determinata. E’ evidente che, disponendo di tale convinzione, l’elettorato moderato e di Forza Italia ha trovato plausibile e ragionevole la sfida al Sì. E ha osato. Probabilmente inutilmente. Le proporzioni della sconfitta del Sì depotenziano la possibilità di una trattativa diretta per la ripresa del Nazareno. E accrescono le carte e il peso della componente populista del No (M5S e Lega). Cui non interessa affatto una ripresa del Nazareno. Il problema è ora complicato.

C’è un paradosso: il risultato del No testimonia una persistente realtà, la destra moderata non è morta. E’ in declino. Questa flebile sopravvivenza viene ingigantita dalla sinistra del Pd per alimentarne lo spauracchio e strizzare ambedue gli occhi ai 5 Stelle. E’ un effetto distorsivo. Che rischia di portare il Pd fuori strada. Il referendum italiano ha un carattere di pericolosità politica superiore a quello dello Brexit. Che non è stato, propriamente, una vittoria populista. Politicamente la GB gode di una salda egemonia conservatrice e non estremista. Il voto “non repubblicano” (in senso europeo) è piuttosto rappresentato da componenti minoritarie (Farage e Labour) che appaiono non tali, oggi, da insidiare l’egemonia conservatrice. Allo stato attuale l’Italia fotografata dal referendum sembrerebbe l’unico paese europeo in cui il populismo (cinque stelle e lega), in proiezione di voto politico, potrebbe condizionare gli assetti del governo. Quello che non è riuscito in Spagna potrebbe verificarsi in Italia. Quello che, probabilmente, si realizzerà in Francia – una netta competizione tra moderati ed estrema destra populista – potrebbe non essere realizzabile in Italia. E questo è il problema. E’ evidente a tutti, dovrebbe finalmente capirlo pure Brunetta, che la competizione politica in Europa va cambiando. E che il rassemblement del No è la persistenza di un fantasma non della realtà che si va approssimando. Il crinale di frattura destra-sinistra diventerà, sempre più in Europa (e in Italia) un retaggio del 900, uno spettro politico non consistente. Come il disegno di un centrodestra con “pas d’ennemis à Droite”. E’ singolare: la reggenza di Forza Italia ripete l’errore strategico che, sull’altro versante, fu per 50 anni del Pci, la pretesa di non avere nemici a sinistra. Inibendosi così l’ingresso al governo. Lo schema che si afferma è quello che, molto probabilmente, sarà reso plastico dalle prossime elezioni francesi: una formazione populista cui si oppongono una formazione (di centrodestra o centrosinistra) moderate e repubblicane destinate (al secondo turno) a convergere.

Rassegniamoci: è tutta l’Europa che evolve verso questo modello di competizione. Chi ancora percorre il sogno destra-sinistra si muove col passo del gambero: ha davanti il… passato. Questo però vale anche per il Pd. E’ scontato che la sconfitta di Renzi schiuda ora alla retorica del ricompattamento. Verrà, a breve, la stagione dei pontieri, ci si inebrierà di retorica dell’unità, ci si inonderà di letteratura sulla ditta in pericolo di evaporazione, di emergenza di identità: “Il centrosinistra ritrovi le radici di sinistra”. E’ ovvio e facile da prevedere che succederà. Sarà un’illusione. E tale da accelerare la sconfitta del Pd. Nel Pd occorrerà che ci sia chi ha il coraggio di pronunciare che il “Re è nudo”: il problema strategico del Pd non è a sinistra e non è di sinistra. Lì è solo non essere, inutilità e noiosa coazione a ripetere lo schema di gioco del passato. Il tema è innovare la lettura della geografia politica italiana: il pericolo e l’avversario è, genericamente, a destra o in Italia si va riproducendo lo schema francese ed europeo di una formazione populista cui bisogna opporre una diga “repubblicana”? Dovrebbe diventare questo il tema congressuale del Pd. Altro che primarie! E’ dal giudizio sulla fase (dicevamo noi vecchi marxisti) che occorre partire. Un bel congresso a tesi: senza balordaggini “unitarie”, carte di valori, pippe di principi e di consueto blablabismo sulle definizioni di sinistra. Renzi si dia il tempo necessario a impostare così il congresso del Pd: senza melodrammi e concessioni retoriche. Il Si trasformi, finalmente, in piattaforma politica, programmatica e di collocazione del Pd nella geografia della competizione – populismo e/o forza repubblicana – tra partiti in Europa. Il nominalismo è inutile.

A mio avviso nel nome Partito della Nazione c’è una sostanza di attualità, di contenuto e di lettura della fase politica in Occidente che è assai più ricca delle banalità terminologiche del vecchio lessico di destra e sinistra. Derubricate pure il nome, se vi piace, ma non sfuggite alla sostanza: la politica occidentale si va scomponendo. Se cresce la radicalizzazione, che per brevità chiamiamo populismo, deve crearsi il contrappeso di una formazione – a vocazione maggioritaria, competente e tranquilla forza di governo – culturalmente radicata nella costruzione europea e saldamente determinata a difenderne i caratteri imprescindibili: concerto di Nazioni e non illusoria deriva nazionalista, di separazione e disgregazione. 

Di più su questi argomenti: