Matteo Renzi (foto LaPresse)

Perché l'Economist sbaglia sul referendum italiano

Davide Vannucci

Erik Jones della Johns Hopkins University spiega perché il grande settimanale inglese ha invertito le priorità. Il conflitto dentro l’establishment italiano e i tentativi di prevedere la reazione dei mercati

Scrive l'Economist nel suo ormai famigerato editoriale che il problema dell'Italia non è il suo assetto istituzionale, ma l'assenza di riforme economiche strutturali, e che quindi Renzi avrebbe sbagliato priorità. Erik Jones, direttore del dipartimento di European and Eurasian Studies presso la School of Advanced International Studies (SAIS) della Johns Hopkins University, non la vede in maniera così semplicistica: "I problemi dell'Italia in un mondo globalizzato non sono la conseguenza del suo assetto istituzionale. L'aumento vertiginoso dello spread nel 2011 fu il risultato del (mal) funzionamento dei mercati finanziari europei. Il flusso dei migranti che arrivano in Italia dal Mediterraneo è un fattore indipendente dal funzionamento delle istituzioni. La questione è se l'Italia potrebbe rispondere meglio a queste sfide con un assetto istituzionale differente. La mia risposta è sì. Se l'Italia avesse un esecutivo maggiormente capace di decidere potrebbe riformare il lavoro e costruire istituzioni di mercato tali da rendere più facile, per lavoratori e investitori, rispondere agli choc esterni. Questo renderebbe l'Italia meno vulnerabile all'improvvisa vendita di titoli di stato, oppure alla fuga di capitali. Potrebbe anche essere più facile per il governo ristrutturare il settore bancario. L'Italia ha bisogno di un'unione bancaria europea ben funzionante e di un meccanismo migliore per i salvataggi degli istituti di credito, nonché di maggiore solidarietà europea nell'affrontare il problema delle migrazioni. Questi non sono obiettivi che una Costituzione diversa può raggiungere. Ma sono obiettivi per i quali un esecutivo più forte può combattere più facilmente, a livello continentale".

Il referendum italiano di domenica è stato letto da più parti come l'ennesimo capitolo della disfida mondiale tra globalismo e populismo, tra le forze dell'establishment aperte ai mercati e quelle dell'anti-establishment che reclamano barriere e protezioni. Jones riconosce che il "governo italiano ha fatto molto per aprire l'Italia all'economia mondiale e ai mercati internazionali. Il fatto che per l'ultima cena di stato della sua presidenza Barack Obama abbia invitato proprio Renzi è la prova di quanto il governo abbia fatto per accrescere il profilo globale del paese".

D'altra parte, però, il professore rifiuta il parallelismo con la Brexit e con le recenti elezioni americane: "Puoi raccontare il referendum italiano in tanti modi, ma è difficile descriverlo come una storia di establishment versus anti-establishment, come è stato per il voto inglese e quello negli Stati Uniti. Abbiamo da una parte il premier di oggi, col suo governo, e dall'altra almeno quattro ex primi ministri: Berlusconi, D’Alema, De Mita e Monti. E’ un conflitto molto domestico, che guarda a quello che c'è dentro le mura, non fuori. Il resto del mondo sta cercando di capire qual è la posta in palio in Italia e come il risultato impatterà sui mercati globali. Gli italiani, invece, non sono preoccupati di cosa pensano gli altri del loro dibattito costituzionale. E’ sufficiente guardare a come è stato accolto l'intervento dell'ambasciatore americano lo scorso settembre. La maggior parte degli italiani vorrebbe che il resto del mondo fosse escluso dal dibattito".

Gli interrogativi sono soprattutto sulle conseguenze economiche, oltre che politiche, del voto. Jones sembra riecheggiare le parole di Yogi Berra, secondo cui è difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro. Il professore sostiene che per ora si possono fare solo speculazioni: "L'unica cosa chiara è che al momento i mercati stanno 'prezzando' la possibilità di una vittoria del no, per cui lo spread tra i titoli italiani e quelli tedeschi si è allargato di più rispetto a quello tra i Bund e i Bonos spagnoli. Ci potrebbe essere un ulteriore allargamento dello spread in caso di vittoria del no. In questo caso, la misura del gap dipenderebbe dalle dimensioni della vittoria del no e dalle valutazioni degli operatori di mercato sulla stabilità di ogni futuro governo italiano e sul successo della ricapitalizzazione delle banche. Se vincesse il sì, lo spread scenderebbe, ma anche in questo caso la riduzione dipenderebbe dalla valutazione degli operatori sulla stabilità del governo Renzi, sulle ricapitalizzazioni, sul risultato delle future elezioni… Insomma, il voto referendario non esaurisce gli interrogativi, ci sono tante questioni in gioco".

L'opinione dei mercati è spesso un argomento a sfavore di chi lo propone. I mercati vogliono stabilità, i populisti sostengono che i cittadini non devono essere prigionieri dei mercati, le persone votano contro l'establishment. Come uscire da questo circolo vizioso? Dice Jones: "Un vecchio responsabile della campagna di Bill Clinton, James Carville, una volta scherzando disse che dopo la morte vorrebbe rinascere mercato obbligazionario. Questo per dire che la tirannia dei mercati è un vecchio problema. Si può fuggire alla tirannia non prendendo in prestito denaro, ma non prendere in prestito denaro causa problemi ancora peggiori. Così dobbiamo avere a che fare con i mercati obbligazionari. L'obiettivo è quello di costruire istituzioni tali da ridurne la volatilità".