Massimo D'Alema (foto LaPresse)

La bussola di D'Alema

Salvatore Merlo

“La vittoria del No segnerà la fine del partito di Renzi”. Max, la maledizione di Montezuma e il Pd

Roma. Si è arreso alla rottamazione ma solo per rottamare il rottamatore, ha saputo tramutare il dispiacere in rancore, e poi il rancore in forza, dunque in vigore, trasformando la sua brama appassita in trama fiorita, tornando dunque protagonista, o forse antagonista sovrano e occulto, quello cui da sempre si attribuiscono tutte le doppiezze e i machiavellismi d’Italia, perché i baffi del gatto, si sa, non cadono mai. E allora, pur impacchettato come le famose eco-balle di Napoli, come uno scarto della rivoluzione industriale, un reperto archeologico dell’antico Egitto, Massimo D’Alema rimane temibile come una maledizione biblica, “occhio a D’Alema”, “guardati da D’Alema”, “sta’ attento a D’Alema”, con il mondo di Matteo Renzi che un po’ sfotticchia, ma come fossero scongiuri, perché forse, in realtà, i ragazzi del governo temono la Mummia e le sue profezie, proprio come il conquistatore Cortés temeva le ultime parole di Montezuma: “Che ci faceva D’Alema la settimana scorsa con Bersani e Fassina? Stanno preparando un nuovo partito, la scissione?”.

 

E lui ne ha dette di notevoli in questa campagna referendaria che si conclude, finalmente, oggi, e che domenica sera consegnerà alla sinistra uno scalpo (ma quale, quello di Renzi o quello del vecchio D’Alema?). Gli archivi dei giornali sono pieni dei taglienti dileggi e dei motti di spirito che l’anziano ha riservato al suo giovane segretario/nemico. Spesso D’Alema si è abbandonato alle battutine e agli scatti di nervi. “Renzi leader? E’ come Briatore”, diceva. Oppure: “Renzi è un uomo che divide, che lacera, e ha pure un tono sprezzante” (che detto da lui è un giudizio abbastanza temerario). E dunque in questi ultimi mesi D’Alema ha organizzato comitati per il No al referendum, ha riunito schiere di attempati dalemiani nei cinema d’Italia, dal Po al Simeto, dall’uno all’altro mar, tutti insieme con il gusto di ritrovarsi ancora una volta in battaglia, dopo tanti anni, come tanti anni fa, come nei film di Ettore Scola, o come nel “Grande freddo”, reduci e veterani: con il presupposto dichiarato di voler difendere il funzionamento dei meccanismi democratici, con la rassicurazione che nessuno vuole creare correnti o favorire scissioni, ma con l’obiettivo principale, o almeno parallelo, impossibile da nascondere: “La vittoria del No segnerà la fine del partito di Renzi”. Un mondo che ha trasformato il malumore nella sua bussola spirituale.

 

E in D’Alema, o nel personaggio che da trent’anni porta il suo nome, l’intelligenza, ormai si sa, si sviluppa in funzione prevalentemente difensiva, come risorsa individuale contro le incognite e contro l’arbitrio, quindi con l’inclinazione al sotterfugio. Così, anche quando prometteva lealtà al suo spavaldo segretario, gli italiani pensavano che in realtà stava per essere consumato un altro tradimento, come ai tempi di Prodi e di Bertinotti. E dunque già prima del referendum, alle amministrative, Aldo Cazzullo gli chiedeva sul Corriere se fosse lui il regista delle candidature anti renziane, se per caso avesse spinto lui Antonio Bassolino a candidarsi a Napoli. Macché. D’Alema rispondeva col contegnoso e olimpico distacco di chi si occupa solo di alte questioni internazionali e non di locale, e banale quotidianità: “Sono sbarcato all’alba a Fiumicino, dall’Iran, dove Vodafone non prende. Non so nulla…”.

 

E però, poco tempo dopo, incapace di trattenersi: “Giachetti candidato del Pd a Roma? Normalmente sono disciplinato e voto per i candidati del mio partito ma in questo caso mi prenderò un ulteriore momento di riflessione”. Finché qualcuno non spifferò che addirittura invitava a votare Virginia Raggi. “Tutto falso”, disse lui. “D’Alema, che è quasi sempre all’estero, non ha avuto modo di occuparsi della campagna elettorale di Roma”, precisò l’ufficio stampa. Ma Tomaso Montanari: “D’Alema mi chiamò per convincermi a diventare assessore con la Raggi”. Ed ecco la furbizia, che è una sottomarca dell’intelligenza, come la similpelle lo è del cuoio. Da allora non è cambiato niente, e ancora adesso lo si può immaginare impegnato a fregarsi le mani in attesa dei risultati del referendum, pregustando, per domenica sera, il 25 luglio del “ducetto fiorentino”. E questo forse gli basta, la soddisfazione, tutta privata e lirica, non di aver vinto, ma di aver visto Renzi perdere. 

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.