C'è un quid rivoluzionario nella riforma, antidoto al nostro neofeudalesimo

Guido Pescosolido

E' dagli anni Settanta del secolo scorso in poi che siamo afflitti da un burocratismo soffocante e da una situazione di anarchismo e confusione di funzioni e competenze tra stato, regioni, poteri locali

Forse mi sbaglio, ma se il 4 dicembre dovesse vincere il No, si annullerebbe una delle operazioni riformatrici più importanti e inconsuete della nostra storia unitaria e non solo di quella. E’ stato infatti piuttosto raro nella storia moderna europea che un Parlamento abbia deciso in piena autonomia, senza urti esterni di sovrani assoluti, rivoluzioni e/o guerre, di modificare la propria struttura organizzativa e il proprio ruolo istituzionale, e nel contempo di ridurre di oltre il 20 per cento la propria consistenza numerica e del 100 per cento il costo delle indennità e dei privilegi annessi e connessi alla carica di membro di uno dei due rami. E’ vero che quest’ultimo è forse l’aspetto meno importante del pacchetto di misure contenute nella riforma costituzionale sottoposta a referendum, ma l’atto resta comunque altamente significativo della volontà riformatrice che ha animato le forze politiche, e in particolare i senatori che, approvando l’eliminazione del bicameralismo perfetto e il nuovo Senato federale, in buona parte hanno decretato la conclusione della propria personale carriera parlamentare.

 

 

La riforma comunque lascia il segno non solo per questo. In realtà essa è di importanza cruciale perché tocca nervi scopertissimi del corpaccio parassitario e neo-feudale che affligge la storia politica, sociale ed economica del nostro paese. Perché la verità è che dal 2001 in poi, ma anche, se vogliamo, dagli anni Settanta del secolo scorso in poi, non solo siamo afflitti da quel burocratismo soffocante, alimentato a seconda dei casi da incompetenza, indolenza, spirito di prevaricazione e concussione, e, soprattutto, terrore di decidere, che tutti, dico tutti, a parole esecriamo; ma siamo, anche, ingabbiati in un nuovo feudalesimo istituzionale fatto di anarchismo e confusione di funzioni e competenze tra stato, regioni, poteri locali, che hanno ricreato in forma aggiornata, tutto il grovi-glio di prevaricazioni e soprusi del feudalesimo classico, contro il quale faticosamente si affermò lo stato moderno consacrato nella Rivoluzione francese. Mancano la servitù della gleba (per quanto forme non solo di asservimento ma addirittura di schiavitù nel sommerso non mancano) e lo jus primae noctis, ma per il resto c’è tutto: tasse e balzelli di ogni tipo, diritti di passo a ogni piè sospinto, sovrapposizioni di normative, conflitti di competenze istituzionali, pullulare di contropoteri illegali e criminali, impossibilità e incapacità dello stato centrale di essere stato.

Sarà pure un caso, ma il nostro declino economico e civile, segnalato da tutti, dico tutti, gli indicatori cominciò negli anni Settanta. Come sappiamo si ebbe allora una crisi economica di portata planetaria, ma noi ne uscimmo molto peggio degli altri e con la novità di un apparato amministrativo regionale che diede subito prova di essere nella stragrande maggioranza dei casi fonte solo di spesa facile e per lo più improduttiva, e di conflitti di competenza con lo stato centrale. Fu da allora che l’Italia cominciò a perdere sistematicamente terreno rispetto al resto d’Europa e del mondo. Abbiamo perso terreno sia nelle fasi di crisi che in quelle di crescita, e l’effetto rallentamento è divenuto ancora più marcato dall’inizio del Nuovo millennio, e lo è divenuto in coincidenza con il grande salto nel cosiddetto federalismo introdotto nel 2001 dalla riforma del titolo V della Costituzione, che in realtà è stato il grande salto nel neofeudalesimo nel quale viviamo.

La riforma sottoposta a referendum, pur con tutti i suoi difetti, segna per la prima volta una concreta inversione di tendenza per uscire dalla deriva e dalla palude della stagnazione e del declino in cui ci troviamo. E’ solo l’inizio dello sforzo che attende noi e i nostri figli, ma a me sembra letteralmente un miracolo che questo Parlamento l’abbia approvata, visto quanto è stato fatto in precedenza. Non mi avventuro in previsioni sul dopo voto. Una cosa però è sicura, ed è che se vincerà il No, il governo – da chiunque sarà formato – e il Parlamento dovranno riprendere il cammino ripartendo precisamente dallo zero neofeudale nel quale anneghiamo almeno da 15 anni. E sarò curioso di ascoltare sulla base di quali analisi e di quali ricette ci spiegheranno quale paradiso ci attende. E’ per questo che voterò Sì.

Guido Pescosolido Professore ordinario di Storia moderna alla Sapienza di Roma, Comitato Liberi Sì

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